mercoledì 3 maggio 2017

L’altrove non è assenza - Raymonde Simone Ferrier



L’altrove non è assenza
è orizzonte da illuminare,
dimensione da avvicinare,
da scoprire in ogni suo angolo remoto,
strato dopo strato.
Magari è purezza incontaminata,
croci e valori non ancora profanati,
sogni indefiniti non ancora infranti,
o volti sofferti e degni, senza maschere,
o giorni e grandi pupille
senz’ombra di colpe o di terrore.
Può essere un altrove ancora intatto
e non per forza dal male da salvare.
Magari è colmo di altri te stesso che paiono ignoti
ed è il tutto che trovi meditando lo sguardo ai cieli.
L’altrove non è assenza
è molto di più della scontata presenza.
Ė di un fotogramma mentale
la messa a fuoco, l’avvicinamento al cuore;
la sempre più nitida risoluzione.
L’altrove è mistero di percezione in evoluzione.
Sublimazione delle affettive comete universali
ospitate nella luminosità delle stelle
degli occhi di chi sa e vuole vedere.
R.S.F.
 

martedì 2 maggio 2017

Sonnet 208: Fireflies - Don Yorty



I’d rather watch fireflies than fireworks
pressing against the dark. “They’re vicious beasts,”
Dad says: “All they do is have sex and eat
their prey by the light they make. There’s the first
one now!” I look watching it glowing go
out quickly back into the dusk again
flickering up the wood going off and on
disappearing, showing the arbor’s post.
The sky has its stars, the earth its fireflies
that come to give us light as the light dies.
On Judgement Day they say that souls will rise
—Stories I’ve heard around a campfire—Eyes
opening with a familiar regard
knowing who I am knowing who they are.

sabato 29 aprile 2017

HEROJI NA POGREŠNOJ STRANI - MIRJANA DOBRILLA


Pozivam sve moje prijatelje i sve one koji bi mogli biti zainteresovani da prihvate moj poziv i dođu na promociju mog romana 30 maja. Najtoplije zahvaljujem

Shankar Mishra


Naman to Srabasti Raym Mam & d. Group of Aesthetic & Heritage for adjudging my poem on Madhusudan Das, d Utkal Gourab posted on his 169th birth Anniversary, yesterday, worthy of d joint A&E First Post. I dedicate this credit to d Mahapurus of Utkal, Utkal Gourab Madhusudan Das.

Reciting a poem at Rock Pebbles' National Poetry Festival & Award Giving Ceremony on 23rd April, 2017, at Cuttack, Odisha,India

martedì 25 aprile 2017

Grande successo per il PREMIO internazionale D’ARTE, POESIA E PROSA "CASERTA 2017 - LA CATENA DELLA PACE” - Goffredo Palmerini



25 aprile 2017

Grande successo per il PREMIO internazionale D’ARTE, POESIA E PROSA
"CASERTA 2017 - LA CATENA DELLA PACE”
La conferenza di Hafez Haidar, le Targhe alla Carriera e alla Cultura tributate, i vincitori del Premio

di Goffredo Palmerini



CASERTA – Grande successo di partecipazione, il 20 e 21 aprile 2017, alla prima edizione del Premio internazionale d’Arte, Poesia e Prosa “Caserta 2017 - La Catena della Pace”, evento organizzato dall’Associazione Culturale VerbumlandiArt di Lecce in partnership con la Pro Loco di Caserta, con il patrocinio della Municipalità del capoluogo campano. Numerose le collaborazioni di associazioni culturali, sociali e di solidarietà nello spirito di pace che VerbumlandiArt anima con le iniziative promosse in Italia e all’estero, una straordinaria catena che all’arte e alla letteratura unisce la specifica missione di promuovere la Pace, il dialogo e il rispetto reciproco tra popoli e culture. VerbumlandiArt si fa portavoce, infatti, dei valori culturali delle Nazioni, dei sentimenti di amicizia e di pace dei loro popoli. Solo nel reciproco rispetto delle specifiche identità nazionali e culturali può affermarsi e crescere una cultura di Pace, nel rispetto delle diversità e nel dialogo con l’altro. Il progetto “Catena della Pace” ha come principale missione quella di promuovere stimoli per la formazione di cittadini d’una società sempre più aperta e multiculturale, dove si affermi un clima di sereno e costruttivo dialogo culturale. Dunque una visione della Pace che si alimenti di buone pratiche con lo scopo di contribuire a formare i nuovi “cittadini del mondo”, capaci d’affrontare e governare con sapienza ed apertura i problemi generati dalla convivenza di culture, religioni e convinzioni politiche diverse, oggi che davvero il mondo è appena fuori dalla nostra porta.


Nella prima giornata, dedicata al vernissage della Mostra d’Arte presso la Biblioteca “A. Ruggiero” sul tema della Pace, si è vissuto un momento di grande intensità emotiva con la consegna della Targa alla Carriera al magistrato prof. Amedeo Postiglione. L’illustre giurista ha affermato che la Pace si realizza nell’esercizio costante del rispetto dell’Altro, dell’Ambiente e della Legalità, perché non c’è Pace senza giustizia, senza rispetto per il creato e per i beni comuni, senza rispetto per la diversità culturale, etnica e religiosa. Amedeo Postiglione è Presidente Aggiunto Onorario della Corte Suprema di Cassazione, Vicepresidente del Forum Europeo dei Giudici per l’Ambiente, fondatore e direttore della Fondazione ICEF, nata nel 1978, quando la Corte Suprema di Cassazione creò il gruppo di lavoro “Ecologia e Territorio”, coordinato proprio dal giudice Postiglione, con esperti delle varie magistrature e del mondo scientifico, con lo scopo di promuovere la realizzazione di banche dati giuridico-ambientali. Già docente di Diritto ambientale all’Università di Urbino e all’Università La Sapienza di Roma, il prof. Postiglione è stato Capo dell’Ufficio Legislativo del Ministero dell’Ambiente, Commissario ad acta del Parco Nazionale d’Abruzzo, Consulente dell’Unione Europea in materia di rifiuti pericolosi e Consulente del Consiglio d'Europa in materia di protezione della vita selvatica in Europa.  


Alla serata inaugurale della Mostra e del Premio letterario hanno presenziato Daniela Borrelli, assessore alla Cultura del Comune di Caserta, Gian Maria Piccinelli, direttore del Dipartimento di Scienze Politiche “Jean Monnet” dell’Università della Campania, Regina Resta, presidente dell’associazione VerbumlandiArt , Carlo Roberto Sciascia, presidente della Pro Loco di Caserta e critico d'arte, Rosa Nicoletta Tomasone, vicepresidente della Rete di Cooperazione Culturale Europea “Le vie di Carlo V” e presidente del Centro Culturale Internazionale “L. Einaudi” di San Severo, Margherita Dini Ciacci, presidente regionale Unicef, Paolo Nicola Corallini Garampi, Gran Priore dell’Ordine dei Cavalieri templari di Gerusalemme d’Italia, Vittorio Giorgi, Console onorario dell'Uzbekistan, Rosalia Pannitti, presidente dell’Associazione Genitori d’Italia sez. Caserta, Giovanna Barca, presidente Donne Giuriste d’Italia sez. Caserta, Valentina Bellini Scala, presidente della Fidapa di Maddaloni, Marialidia Raffone, direttrice della Biblioteca “A. Ruggiero”, Lucia de Cristofaro, direttrice Albatros Edizioni, e chi scrive, Ambasciatore d’Abruzzo nel mondo.


La mattina di venerdì 21 aprile, presso il Dipartimento Scienze Politiche “Jean Monnet”, ospite il direttore prof. Gian Maria Piccinelli, il prof. Hafez Haidar, docente di Letteratura araba presso l’Università di Pavia e candidato al Premio Nobel per la Pace, ha tenuto la sua conferenza alla presenza di illustri ospiti e di numerosi studenti universitari. Per l’insigne docente e scrittore Hafez Haidar bisogna superare alcune ipocrisie: “…a livello mondiale, una delle strategie deve essere quella di chiudere le fabbriche di armamenti che commerciano con i terroristi e boicottare gli Stati che finanziano il terrorismo con armi e denaro”. La diffusione della cultura, la conoscenza reciproca e il dialogo interreligioso sono la migliore forma di prevenzione dell’integralismo islamico, secondo il prof. Haidar, straordinario testimone della cultura della Pace ovunque, specialmente in Europa e in Medio Oriente. Nel mondo islamico - ha aggiunto lo scrittore – “…c’è la necessità di promuovere i diritti delle donne”. Il prof. Haidar ha quindi rivolto un invito all’Europa perché non si faccia prendere dal panico di fronte alla questione dei profughi: “…il mio Paese, il Libano, ha una popolazione di 3,5 milioni di abitanti. Tra siriani, palestinesi, iracheni, somali, ospita 3 milioni di migranti”. La Cultura della Pace deve dunque uscire dall’interiorità individuale e diventare fenomeno comunitario e sociale, in cui la diversità etnica, religiosa e culturale si viva come un arricchimento e non come problema.



 Dopo la conferenza del prof. Haidar sono state consegnate le Targhe alla Cultura al prof. Gian Maria Piccinelli e all’avv. Antonino Cuomo che più volte è stato sindaco di Sorrento, scrittore raffinato e imprenditore. Un intermezzo musicale ha allietato la mattinata, con arie napoletane cantate dalla soprano Cristina Patturelli, accompagnata alla chitarra da Franco Manuele.


Nel pomeriggio, nella Biblioteca “A. Ruggiero”, si è svolta la cerimonia di consegna dei riconoscimenti a poeti, scrittori e artisti risultati vincitori del Premio “Caserta 2017 - La Catena della Pace”, dei Premi speciali o delle Menzioni d’onore, dopo l’accurata selezione svolta dalle Giurie così costituite: per l’Arte ing. Carlo Roberto Sciascia, critico d’arte e presidente della Pro Loco di Caserta, dr. Giovanni Vinciguerra, gallerista, avv. Raffaele Murtas, artista autore e conduttore di programmi Tv; per la Letteratura prof. Hafez Haidar, docente universitario e scrittore, prof. Carlo Alberto Augieri, docente dell’Università del Salento, avv. Angelo Sagnelli, direttore artistico Spoleto ArtFestival Letteratura, dr. Annella Prisco, presidente Centro Studi Michele Prisco di Napoli, prof. Sergio Camellini, psicologo clinico e poeta. La serata è stata allietata da applauditissimi intermezzi musicali del fisarmonicista Pasquale De Marco. E’ stato infine tributato il Premio alla Carriera alla dr. Maria Cristina Poma e il Premio alla Cultura alla dr. Paola Galioto Grisanti.



Ciascun autore presente ha potuto declamare la sua creazione poetica e di prosa, suscitando emozioni intense. La serata è stata coordinata da Regina Resta e condotta brillantemente da Raffaele Murtas, che ha posto in campo spiccate doti dialettiche e di simpatica ironia, un tocco di leggerezza all’evento, il sorriso in contrappunto alle emozioni. Sono risultati vincitori del Premio letterario Enzo Bacca e Dorotea Matranga, ex aequo per la Poesia, Giuseppe Milella per la Silloge poetica; Paolo Miggiano per la Prosa. Per gli autori in lingua straniera sono risultati vincitori ex aequo i poeti serbi Mika Vlacovic Vladisavljevic e Borisav Blagojevic. Per la sezione Arti Figurative sono risultati vincitori Carmine Sibona per la Scultura, Pier Felice Trapassi per la Fotografia, Leonilda Fappiano per la Pittura. Questi gli artisti in concorso, le cui opere rimarranno esposte fino al 3 maggio prossimo: Gianna Amendola, Antonio Apicella, Norma Bini, Letizia Caiazzo, Daniela Capuano, Rocco Cardinali, Mirella Ciardiello, Loredana De Nunzio, Rosanna Della Valle, Rosanna Di Carlo, Renato Falco, Leonilda Fappiano, Giovanna Giordano, Anna Grisabella, Paola Nuzzo, Vincenzo Paesano, Vincenzo Piatto, Massimo Pozza, Gabriella Pucciarelli, Silvia Rea, Paolo Ruggiero, Bartolomeo Sciascia, Carmine Sibona, Pierfelice Trapassi, Anna Zulla, Sonia Zulla. L’allestimento espositivo e l’organizzazione del Premio sono stati ben curati da Ottavia Patrizia Santo e Guido Vaglio, con il generoso supporto di Mirjana Dobrilla e Leonilda Fappiano.


















lunedì 24 aprile 2017

UN AMORE PROIBITO AL TEMPO DEL COLERA - Sergio Casagrande



UN AMORE PROIBITO AL TEMPO DEL COLERA

Ci eravamo laureati in medicina cinque anni prima, poi lo avevo perso di vista. Lo avevo rivisto a Napoli, nel 1884, quando era scoppiato il colera. Era diventato assistente di un vecchio medico che prestava la sua opera nei conventi e congregazioni della città; poi, alla morte di questo, ne aveva presto il suo posto. Davide era una persona speciale, bello come un Apollo e di una sensibilità e gentilezza senza uguali. Mentre io ero rimasto scapolo, avevo avuto qualche avventura ma mai mi ero innamorato, il mio amico si era sposato con una certa Cristina, una ragazza dolcissima, dal cuore, e dai boccoli, d’oro, e gli occhi color del mare, che lo aspettava trepidante ogni giorno davanti alla finestra del loro nido. Non aveva che lui la mondo, lo aveva sposato contro la volontà dei suoi genitori; lui avrebbe voluto mandarla lontano da quei luoghi infetti, ma Cristina si era rifiutata di lasciarlo solo. In quei giorni Davide si stava occupando del convento delle monache di clausura. Mi disse di non temere il contagio perché si era messo sotto le ali rassicuranti della Madonna del Carmine, di cui portava appresso l’effige, mentre la moglie si era affidata a Santa Lucia, la protettrice degli occhi. Invidiavo la loro fede, la loro sicurezza nel divino. Perché Dio provocava tanta sofferenza, per poi dover essere pregato per debellarla? “Mi raccomando,” mi disse “se la Madonna decidesse altrimenti e dovesse succedermi qualcosa, portami subito al cimitero, non voglio che gli occhi che mi amano mi vedano in quelle condizioni. La morte per colera è così ripugnante! Io non temo la morte per me stesso, ma per mia moglie.” Lo rassicurai: La Madre di Dio lo avrebbe sicuramente protetto. Un giorno, mentre stavo osservando con cupidigia le gambe di Rosetta, che aveva sulle guance lo stesso colore delle pesche che sua madre vendeva al mercato, e mi era indifferente e quasi non udivo il lugubre rintocco delle campane, un ragazzo mi si avvicinò e mi porse un pezzetto di carta sul quale erano state scarabocchiate poche parole: “Venite”. Poco dopo mi fermavo davanti al cancello di ferro arrugginito del convento. Venne ad aprirmi una vecchia monaca, in parte rugginosa anche lei, che mi precedette attraverso il percorso del chiostro; agitava un campanello, che secondo le usanze avvertiva la presenza di un uomo e invitava le religiose di ritirarsi nelle loro celle. Camminammo per un lungo e oscuro corridoio deserto. Un’altra monaca alzò una lanterna davanti al mio viso e aprì una porta di una camera fiocamente illuminata. A terra, disteso sopra un materasso, giaceva il mio amico. Non lo riconobbi subito, un prete gli stava somministrando l’ultimo sacramento. Era già in stadium algidum, il corpo era freddo, il volto pallidissimo e sudato, ma dai suoi occhi, incavati nelle orbite, notai che era ancora cosciente. Lo guardai e un brivido mi scosse tutto il corpo. Non era Davide che vedevo, ma l’immonda morte. Il suo volto stravolto si contrasse in uno sforzo disperato per parlarmi. Dalle sue labbra tremanti uscì una specie di pigolio, ansimò, insistette con tutto se stesso: “Specchio”. Una monaca me lo pose e glielo tenni davanti ai suoi occhi semichiusi. Scosse la testa due tre volte, alzò la mano, indicandomi la strada che dovevo seguire. Furono i suoi ultimi segni di vita. La carretta per portare via le monache morte durante il giorno aspettava davanti al cancello e sapevo che toccava a me decidere se farlo portare via subito o aspettare il giorno seguente. Non dissi una parola e fu gettato assieme ad altre centinaia di cadaveri nella fossa comune del cimitero dei colerosi. Sostai davanti alla sua casa e vidi una bianca faccina di donna, una fanciulla, quasi. Era alla finestra. Quando mi vide barcollò: “Siete il medico forestiero, amico di Davide. Non è tornato. Sono stata alla finestra tutta la notte. Dove si trova? Portatemi da lui. Voglio vederlo!” La trattenni, le raccontai che il luogo era infetto e che doveva pensare al bimbo che portava in grembo. “Voglio andare da lui, subito” singhiozzò. “Aiutatemi, vi prego!” La trattenni ancora: “Non è possibile, non è più…” Si lanciò allora su di me come una belva ferita, tempestandomi di pugni: “Non avevate nessun diritto di farlo portar via finché non lo avessi visto!” gridò pazza di rabbia. “Era la luce dei miei occhi, ora la luce non la vedrò più. Siate maledetto! Santa Lucia accecatelo, come lui ha accecato me! Strappategli gli occhi, come vi sono stati strappati i vostri!” La mia bocca restò cucita, i miei occhi lacrimavano e parlavano per lei. “Colpisci, piccola, colpisci più forte,” pensai tra me “hai tutte le ragioni del mondo.”
La maledizione che mi era stata scagliata da quella fanciulla disperata non mi fece chiudere occhio per tutta la notte e rintronò contro di me. Ma il tempo della sofferenza e della pietà era solo all’inizio. Il padre confessore del convento in mattinata venne a trovarmi. Mi pregò di sostituire il defunto Davide. Quando entrai c’erano tre nuovi casi di colera. Le monache erano in stato di agitazione: alcune, colpite dal panico, correvano di qua e di là senza costrutto, altre, cantavano i salmi propiziatori nella Cappella. Le tre ammalate erano distese moribonde su materassi di paglia nelle loro rispettive celle. Una morì la notte stessa, le altre due al mattino. Mi fu affidata come aiutante una vecchia monaca di settant’anni, che però rese l’anima a Dio due giorni dopo. La sostituì una cinquantenne, che durò una settimana scarsa. Al mio fianco mi fu destinata una monaca giovanissima e incantevole dal volto angelico. Nonostante la drammatica situazione, il mio sangue giovane mi impedì di vedere in lei una sposa del Signore. Le feci alcune domande, quale era il suo nome, da dove proveniva, ma quella dolcissima creatura rispose solo a quelle pertinenti alla mansione affidatale. Quella sera la sognai. Sogno proibito, ma i sogni non conoscono regole. Era entrata nella mia stanza. Una mano venne a sfiorare i miei capelli. Balzai a ghermire quella mano delicata. La strinsi, la sentivo tra le mie calda e fremente, umile e inquieta, come una passera ghermita sull’uscio di una gabbia. Le sentivo quell’aspro odore di santità mischiato alla sanità incolta che le traspariva da tutti i pori del corpo, protetto solo dall’umile saio. L’alito caldo della sua bocca mi bruciava la palma, mi penetrava nelle vene, mi fluiva per il braccio a saturarmi tutto il mio essere come di un fuoco liquido. Poi, come una bolla di sapone, tutto svanì all’improvviso. Il colera invece, fatto reale, continuava a imperversare. Alla mattina chiesi un colloquio alla Badessa. Le dissi che tutto il convento era infetto, che le condizione sanitarie erano spaventose, che l’acqua nel pozzo era inquinata, che quel luogo doveva essere sgombrato al più presto o nessuna si sarebbe salvata. La vecchia Priora mi scrutò da cima a fondo con i suoi freddi occhi sporgenti e penetranti, severi come quelli di un giudice. Sarebbe stato difficile vedere nel suo sguardo, un barlume, seppur microscopico, di tenerezza e amore. Mi rispose che ciò era impossibile. Le regole dell’Ordine non lo consentivano. Nessuna monaca, una volta entrata nel convento, l’aveva mai lasciato da viva. Abbassai il capo e tornai sui miei passi. Non lasciai mai il convento per alcune indimenticabili settimane di terrore. Un pomeriggio mi ero preso un po’ di riposo ed ero seduto su una panca di marmo nel chiostro. Alla mie spalle qualche resto di statue antiche. Talvolta si materializzava per qualche minuto la mia giovane assistente. Diceva che era costretta a uscire per prendere una boccata d’aria fresca, altrimenti sarebbe svenuta per il fetore. Stavo per alzarmi, quando la vidi arrivare alle mie spalle con passo silenzioso, teneva in mano una tazza di tè. “Prendete” disse “vi farà bene”. Poi staccò da un cespuglio una rosa e me la porse. “Annusatela, riuscirà in parte a stemperare questo terribile odore”. Sorseggiai con voluta lentezza il liquido e a parer mio mi sembrava contenta che io ritardassi di consegnarle la tazza vuota. Le chiesi: “Sapete chi rappresenta questa piccola statua che sta alle mie spalle?” Mi guardò sorpresa e parve titubante: “Non saprei, penso a un piccolo angelo del Signore”. Sorrisi, m’incantava la sua dolce ingenuità. “No, non è un angelo del Signore. Questo Essere regnava sull’Olimpo già alcuni secoli fa e ora regna sul mondo! È Eros, il Dio immortale più grande di tutti: è il Dio dell’Amore!” Mentre pronunciavo queste sacrileghe parole, la campana della Cappella chiamava a raccolta le monache per le preghiere serali. Quella deliziosa creatura prese allora una seconda rosa rossa e me la donò insieme al suo primo soave sorriso, che appariva ora quello di una sirena. Cosa mi veniva in mente? Mi pareva che una domanda scintillasse nei suoi occhi: non mi sarebbe piaciuto di avere anche le sue labbra rosse? Che nuova paura mi faceva battere il cuore tanto tumultuosamente? La giovane monaca si fece il segno della Croce e abbandonò frettolosamente il giardino. Subito dopo una monaca arrivò davanti a me tutta trafelata per condurmi dalla Badessa: era svenuta nella Cappella; l’avevano appena portata nella sua cella. Quando entrai mi guardò con i suoi occhi agghiaccianti. Alzò la mano e le portarono il Crocifisso appeso alla parete. Poi ricevette l’Estrema Unzione. Rimase così per tutto il giorno con il Crocifisso sul petto, gli occhi chiusi e il Rosario nelle mani, mentre il suo corpo si raffreddava lentamente. Una volta mi parve di sentire il battito del cuore, poi non percepii più nulla. Osservai più volte quella severa e rigida faccia crudele: nemmeno la Morte, il Rosario e il Crocifisso erano riusciti ad addolcirla. Era un sollievo per me che i suoi occhi fossero chiusi per sempre: c’era qualcosa in essi che mi aveva spaventato a morte. Guardai la giovane monaca al mio fianco: “Non posso più restare qui,” le mormorai” questa notte non ho dormito e non sto troppo… bene…” Non ebbi il tempo di terminare la frase e lei non ebbe il tempo di tirarsi indietro, che le mie braccia l’avevano avvolta. Sentivo il battito tumultuoso del suo cuore come fosse stato il mio, forse era un unico cuore a battere. La baciai con impeto. “Pietà” sussurrò, indicandomi con lo sguardo il giaciglio. E fuggì dalla cella con un grido di terrore. Mi girai: gli occhi della Badessa erano ora spalancati e mi fissavano terrificanti e minacciosi. Mi chinai sopra di lei e mi parve di sentire un leggero fremito del cuore. Era morta o viva? Potevano vedere quei terribili occhi? Avevano visto? Non osavo guardarli, tirai il lenzuolo sopra il suo viso e corsi fuori cella e dal convento. Per non tornarci mai più.

ARTE, POESIA, SOCIETA’, NATURA - Alberto Massazza




Cos’è la poesia? Domanda che può essere la chiave di volta di ogni possibile estetica.
Cos’è la poesia? Si, ma quale poesia? Se si punta l’obiettivo al centro e si restringe il campo, possiamo mettere a fuoco una prima precaria definizione: la poesia è una forma d’arte definita (ma al contempo indefinita e indefinibile)che utilizza come materia prima la parola. Come ogni forma d’arte, ha i suoi canoni estetici, per quanto perennemente trasformantisi, che rispondono alla necessità di dare uno sviluppo armonico, ritmico, musicale all’attività poetica.
Ma allargando il campo, ecco che notiano che la poesia come forma d’arte si apre e dirama i suoi raggi sia verso altre forme artistiche che verso attività umane non propriamente o per nulla artistiche, fino a interessare il nostro modo di porci di fronte a determinati fenomeni naturali. Così, parliamo di poesia (o poetica) del Caravaggio, del Borromini, di Daumier, di Skrjabin e così via. Così come parliamo di poetica di un’alba, della luna o di determinati comportamenti umani e animali.
Poi ci sono dei casi particolari in cui artisti e intellettuali che pure hanno dedicato buona parte della loro opera alla poesia stricto sensu (ottenendo il riconoscimento ufficiale per quest’attività), possono essere considerati poeti in egual misura se non maggiore, per la loro attività non strettamente poetica. E’ il caso di Pasolini, il quale, a mio umile ma non modesto giudizio, è stato capace di creare poesia più con la sua attività di cineasta e intellettuale che con quella letteraria. O di Antonin Artaud che, sempre a mio umile ma non modesto giudizio, ha raggiunto il suo vertice poetico con la sua testimonianza di vita e di disagio, più che con la sua attività letteraria e intellettuale.

Opere dell'Artista Riccardo Magatti


 Riccardo Magatti Artista






sabato 15 aprile 2017

Pasqua, festa complicata da raccontare - Matino Gennaro

Il Giudizio Universale(1535 -1541) di Michelangelo Buonarroti

Augurare buona Pasqua non è fatto di circostanza, è gioia di futuro da passare, speranza da raccontare, coraggio da organizzare, stile di vita da proporre, è gridare che la terra del cielo è in nostro possesso, eredità d’amore concessa all’umano.
Pasqua è festa complicata da raccontare. Tutto inizia all’alba di quel terzo giorno: “Vide che la pietra era stata tolta dal sepolcro” (Gv 20,1). Questo l’annuncio difficile da passare, come difficile resta raccontare il colore radioso di una vittoria impensabile che riconsegni ai perduti della storia la speranza di potercela fare. Rischioso parlare oggi di resurrezione dei morti, perfino la Chiesa ne parla poco. Che ci sia un futuro dopo, un qualcosa a cui appigliarsi, pochi lo negano. Saremo spirito? Anime vaganti o reincarnate? Qualcosa ci sarà. Ma la resurrezione della carne è altra questione, ragionarne è complicato, provoca l’intelligenza, la fa soffrire.
Eppure qui sta la sfida credente, qui il Vangelo di Gesù di Nazareth si esalta, credere nella resurrezione di un corpo, il suo, e per il suo il nostro, che per la sua vittoria ha finalmente un futuro. Un corpo vero, non solo l’anima, non una fumosa sostanza che perduri dopo la morte, ma il rinascere del corpo, impensabile speranza che rimanda a memoria di contatti, alla continuità con il tempo, a una eternità che non cancella l’amore passato, non annulla la nostra storia personale né la tenerezza degli affetti condivisi nel tempo con i nostri cari. Più facile di sicuro piangere un morto che parlare di resurrezione, il dolore è sotto i nostri occhi, è pane quotidiano. Più facile raccontarci la sofferenza e per condividerla trovare una religiosità rassicurante, senza domande, senza ricerca, soprattutto senza risposte impegnative, una fuga oppiante dal dolore, che ci liberi dal dovere di organizzare il futuro, di dare ragione al senso stesso della nostra vita.
Meglio parlare d’altro nelle nostre assemblee, forse di pace, di giustizia, di solidarietà. Meglio adeguarsi a linguaggi normali, più adatti a provocare consensi se il rischio è quello di perdere clienti. Eppure, per chi crede, la sfida è questa, raccontare la Pasqua, raccontare che qualcuno ha sgridato la morte e l’ha ingoiata per la vittoria: “Vieni fuori!”(Gv 11,43). Certo il cristianesimo è anche impegno nel sociale, trasformazione della terra, ma è innanzitutto quel grido che va raccolto nella sua originaria verità, senza fughe, senza silenzi, senza paura di doverlo gridare: “Cristo è veramente risorto”. Veramente, non apparentemente, non una favola da raccontare a poveri disgraziati.
È un grido che riguarda i credenti, perché vana sarebbe la loro fede se Cristo non fosse veramente risorto (Cf 1 Cor 15,17), ma è fatto che riguarda anche coloro che guardano ai credenti e che davvero vogliono capire chi davvero essi siano o meglio chi davvero dovrebbero essere. Se in tanti, in cammino sulle nostre stesse strade, avanza il convincimento che Dio è morto, soprattutto quando restano muti e sconfitti di fronte alla morte, se tanti non sanno che farsene dell’idea di un Dio provocata dai sottili e discussi ragionamenti della sapienza dei dotti, avere il coraggio di proclamare la propria fede nello scandalo di una croce che diventa vittoria sulla morte, è davvero una straordinaria provocazione in tempo di anemia di visionari. Quante volte mi è stato vomitato in faccia il dolore per una morte ingiusta, quante volte la religiosissima gente, che pure sa fare i conti con la morte, non riesce a comprendere la relazione che esiste tra fede in un Dio buono e la loro sofferenza. “Dove era il tuo Dio quando l’ho pregato? Quando giorno e notte l’ho supplicato di lasciare in vita la carne che ho partorito e ho allattato, quando l’ho scongiurato di prendere la mia in cambio?. Dov’era il tuo Dio quando noi povera gente abbiamo cercato il suo volto, abbiamo bussato alla sua porta che ci è stata sbattuta in faccia irrimediabilmente?”.
Quanto si paga ad essere uomini, ma come è difficile la fede! Cosa rispondere al dolore che affoga per colpa di un vento che si avverte contrario. Affidati a Dio? E quale Dio abbiamo annunciato, quale esperienza dell’Alto è passata in chi nel dolore avverte Dio come nemico o inutile? Dov’è il Padre del cielo che ha tanto amato il mondo, che non vuole la morte ma la vita? Se nel giorno del lutto è gioco forza per tutti chiedere a Dio dove era, la fede dovrebbe dare la risposta: se Cristo è veramente risorto, risorgerai! Questa è la Pasqua e senza Pasqua non c’è Chiesa, non c’è fede, non ci sono Papi, Cardinali, Vescovi e preti, non ci sono liturgie e preghiere. C’è la finzione di un’istituzione che vive per il solo suo potere e per la sua malata soddisfazione. Augurare buona Pasqua non è fatto di circostanza, è gioia di futuro da passare, speranza da raccontare, coraggio da organizzare, stile di vita da proporre, è gridare che la terra del cielo è in nostro possesso, eredità d’amore concessa all’umano.

giovedì 13 aprile 2017

TRENI E TRENI - Marina Marini Danzi




TRENI E TRENI
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Sai che mi perderai
Nello scambio mancato
dell'unico treno
Lungo i binari
da altri tracciati
Sempre più' distanti
Estranei, quasi ostili
Mi perderai per sempre
Cogli il fiore
che rosso resiste
tra lo squallore
di un'esistenza a ore
Segui la vita
che sferraglia veloce
I treni sognati
che corrono verso l'altrove
su sconosciuti binari
Afferra tutte le coincidenze meravigliose
come quella che ci fece trovare
Un solo treno
un unico binario
per le nostre anime affini
Scorderemo i corpi
e tutto ciò' che e' reale
cio' che conta e non serve
Neanche una fermata
Correremo insieme
uniti nel cuore
per sempre

Marina Marini Danzi
13/04/2016
Diritti@riservati
Foto da web