UN AMORE PROIBITO AL TEMPO DEL COLERA
Ci eravamo laureati in medicina cinque anni prima, poi lo avevo perso di vista. Lo avevo rivisto a Napoli, nel 1884, quando era scoppiato il colera. Era diventato assistente di un vecchio medico che prestava la sua opera nei conventi e congregazioni della città; poi, alla morte di questo, ne aveva presto il suo posto. Davide era una persona speciale, bello come un Apollo e di una sensibilità e gentilezza senza uguali. Mentre io ero rimasto scapolo, avevo avuto qualche avventura ma mai mi ero innamorato, il mio amico si era sposato con una certa Cristina, una ragazza dolcissima, dal cuore, e dai boccoli, d’oro, e gli occhi color del mare, che lo aspettava trepidante ogni giorno davanti alla finestra del loro nido. Non aveva che lui la mondo, lo aveva sposato contro la volontà dei suoi genitori; lui avrebbe voluto mandarla lontano da quei luoghi infetti, ma Cristina si era rifiutata di lasciarlo solo. In quei giorni Davide si stava occupando del convento delle monache di clausura. Mi disse di non temere il contagio perché si era messo sotto le ali rassicuranti della Madonna del Carmine, di cui portava appresso l’effige, mentre la moglie si era affidata a Santa Lucia, la protettrice degli occhi. Invidiavo la loro fede, la loro sicurezza nel divino. Perché Dio provocava tanta sofferenza, per poi dover essere pregato per debellarla? “Mi raccomando,” mi disse “se la Madonna decidesse altrimenti e dovesse succedermi qualcosa, portami subito al cimitero, non voglio che gli occhi che mi amano mi vedano in quelle condizioni. La morte per colera è così ripugnante! Io non temo la morte per me stesso, ma per mia moglie.” Lo rassicurai: La Madre di Dio lo avrebbe sicuramente protetto. Un giorno, mentre stavo osservando con cupidigia le gambe di Rosetta, che aveva sulle guance lo stesso colore delle pesche che sua madre vendeva al mercato, e mi era indifferente e quasi non udivo il lugubre rintocco delle campane, un ragazzo mi si avvicinò e mi porse un pezzetto di carta sul quale erano state scarabocchiate poche parole: “Venite”. Poco dopo mi fermavo davanti al cancello di ferro arrugginito del convento. Venne ad aprirmi una vecchia monaca, in parte rugginosa anche lei, che mi precedette attraverso il percorso del chiostro; agitava un campanello, che secondo le usanze avvertiva la presenza di un uomo e invitava le religiose di ritirarsi nelle loro celle. Camminammo per un lungo e oscuro corridoio deserto. Un’altra monaca alzò una lanterna davanti al mio viso e aprì una porta di una camera fiocamente illuminata. A terra, disteso sopra un materasso, giaceva il mio amico. Non lo riconobbi subito, un prete gli stava somministrando l’ultimo sacramento. Era già in stadium algidum, il corpo era freddo, il volto pallidissimo e sudato, ma dai suoi occhi, incavati nelle orbite, notai che era ancora cosciente. Lo guardai e un brivido mi scosse tutto il corpo. Non era Davide che vedevo, ma l’immonda morte. Il suo volto stravolto si contrasse in uno sforzo disperato per parlarmi. Dalle sue labbra tremanti uscì una specie di pigolio, ansimò, insistette con tutto se stesso: “Specchio”. Una monaca me lo pose e glielo tenni davanti ai suoi occhi semichiusi. Scosse la testa due tre volte, alzò la mano, indicandomi la strada che dovevo seguire. Furono i suoi ultimi segni di vita. La carretta per portare via le monache morte durante il giorno aspettava davanti al cancello e sapevo che toccava a me decidere se farlo portare via subito o aspettare il giorno seguente. Non dissi una parola e fu gettato assieme ad altre centinaia di cadaveri nella fossa comune del cimitero dei colerosi. Sostai davanti alla sua casa e vidi una bianca faccina di donna, una fanciulla, quasi. Era alla finestra. Quando mi vide barcollò: “Siete il medico forestiero, amico di Davide. Non è tornato. Sono stata alla finestra tutta la notte. Dove si trova? Portatemi da lui. Voglio vederlo!” La trattenni, le raccontai che il luogo era infetto e che doveva pensare al bimbo che portava in grembo. “Voglio andare da lui, subito” singhiozzò. “Aiutatemi, vi prego!” La trattenni ancora: “Non è possibile, non è più…” Si lanciò allora su di me come una belva ferita, tempestandomi di pugni: “Non avevate nessun diritto di farlo portar via finché non lo avessi visto!” gridò pazza di rabbia. “Era la luce dei miei occhi, ora la luce non la vedrò più. Siate maledetto! Santa Lucia accecatelo, come lui ha accecato me! Strappategli gli occhi, come vi sono stati strappati i vostri!” La mia bocca restò cucita, i miei occhi lacrimavano e parlavano per lei. “Colpisci, piccola, colpisci più forte,” pensai tra me “hai tutte le ragioni del mondo.”
La maledizione che mi era stata scagliata da quella fanciulla disperata non mi fece chiudere occhio per tutta la notte e rintronò contro di me. Ma il tempo della sofferenza e della pietà era solo all’inizio. Il padre confessore del convento in mattinata venne a trovarmi. Mi pregò di sostituire il defunto Davide. Quando entrai c’erano tre nuovi casi di colera. Le monache erano in stato di agitazione: alcune, colpite dal panico, correvano di qua e di là senza costrutto, altre, cantavano i salmi propiziatori nella Cappella. Le tre ammalate erano distese moribonde su materassi di paglia nelle loro rispettive celle. Una morì la notte stessa, le altre due al mattino. Mi fu affidata come aiutante una vecchia monaca di settant’anni, che però rese l’anima a Dio due giorni dopo. La sostituì una cinquantenne, che durò una settimana scarsa. Al mio fianco mi fu destinata una monaca giovanissima e incantevole dal volto angelico. Nonostante la drammatica situazione, il mio sangue giovane mi impedì di vedere in lei una sposa del Signore. Le feci alcune domande, quale era il suo nome, da dove proveniva, ma quella dolcissima creatura rispose solo a quelle pertinenti alla mansione affidatale. Quella sera la sognai. Sogno proibito, ma i sogni non conoscono regole. Era entrata nella mia stanza. Una mano venne a sfiorare i miei capelli. Balzai a ghermire quella mano delicata. La strinsi, la sentivo tra le mie calda e fremente, umile e inquieta, come una passera ghermita sull’uscio di una gabbia. Le sentivo quell’aspro odore di santità mischiato alla sanità incolta che le traspariva da tutti i pori del corpo, protetto solo dall’umile saio. L’alito caldo della sua bocca mi bruciava la palma, mi penetrava nelle vene, mi fluiva per il braccio a saturarmi tutto il mio essere come di un fuoco liquido. Poi, come una bolla di sapone, tutto svanì all’improvviso. Il colera invece, fatto reale, continuava a imperversare. Alla mattina chiesi un colloquio alla Badessa. Le dissi che tutto il convento era infetto, che le condizione sanitarie erano spaventose, che l’acqua nel pozzo era inquinata, che quel luogo doveva essere sgombrato al più presto o nessuna si sarebbe salvata. La vecchia Priora mi scrutò da cima a fondo con i suoi freddi occhi sporgenti e penetranti, severi come quelli di un giudice. Sarebbe stato difficile vedere nel suo sguardo, un barlume, seppur microscopico, di tenerezza e amore. Mi rispose che ciò era impossibile. Le regole dell’Ordine non lo consentivano. Nessuna monaca, una volta entrata nel convento, l’aveva mai lasciato da viva. Abbassai il capo e tornai sui miei passi. Non lasciai mai il convento per alcune indimenticabili settimane di terrore. Un pomeriggio mi ero preso un po’ di riposo ed ero seduto su una panca di marmo nel chiostro. Alla mie spalle qualche resto di statue antiche. Talvolta si materializzava per qualche minuto la mia giovane assistente. Diceva che era costretta a uscire per prendere una boccata d’aria fresca, altrimenti sarebbe svenuta per il fetore. Stavo per alzarmi, quando la vidi arrivare alle mie spalle con passo silenzioso, teneva in mano una tazza di tè. “Prendete” disse “vi farà bene”. Poi staccò da un cespuglio una rosa e me la porse. “Annusatela, riuscirà in parte a stemperare questo terribile odore”. Sorseggiai con voluta lentezza il liquido e a parer mio mi sembrava contenta che io ritardassi di consegnarle la tazza vuota. Le chiesi: “Sapete chi rappresenta questa piccola statua che sta alle mie spalle?” Mi guardò sorpresa e parve titubante: “Non saprei, penso a un piccolo angelo del Signore”. Sorrisi, m’incantava la sua dolce ingenuità. “No, non è un angelo del Signore. Questo Essere regnava sull’Olimpo già alcuni secoli fa e ora regna sul mondo! È Eros, il Dio immortale più grande di tutti: è il Dio dell’Amore!” Mentre pronunciavo queste sacrileghe parole, la campana della Cappella chiamava a raccolta le monache per le preghiere serali. Quella deliziosa creatura prese allora una seconda rosa rossa e me la donò insieme al suo primo soave sorriso, che appariva ora quello di una sirena. Cosa mi veniva in mente? Mi pareva che una domanda scintillasse nei suoi occhi: non mi sarebbe piaciuto di avere anche le sue labbra rosse? Che nuova paura mi faceva battere il cuore tanto tumultuosamente? La giovane monaca si fece il segno della Croce e abbandonò frettolosamente il giardino. Subito dopo una monaca arrivò davanti a me tutta trafelata per condurmi dalla Badessa: era svenuta nella Cappella; l’avevano appena portata nella sua cella. Quando entrai mi guardò con i suoi occhi agghiaccianti. Alzò la mano e le portarono il Crocifisso appeso alla parete. Poi ricevette l’Estrema Unzione. Rimase così per tutto il giorno con il Crocifisso sul petto, gli occhi chiusi e il Rosario nelle mani, mentre il suo corpo si raffreddava lentamente. Una volta mi parve di sentire il battito del cuore, poi non percepii più nulla. Osservai più volte quella severa e rigida faccia crudele: nemmeno la Morte, il Rosario e il Crocifisso erano riusciti ad addolcirla. Era un sollievo per me che i suoi occhi fossero chiusi per sempre: c’era qualcosa in essi che mi aveva spaventato a morte. Guardai la giovane monaca al mio fianco: “Non posso più restare qui,” le mormorai” questa notte non ho dormito e non sto troppo… bene…” Non ebbi il tempo di terminare la frase e lei non ebbe il tempo di tirarsi indietro, che le mie braccia l’avevano avvolta. Sentivo il battito tumultuoso del suo cuore come fosse stato il mio, forse era un unico cuore a battere. La baciai con impeto. “Pietà” sussurrò, indicandomi con lo sguardo il giaciglio. E fuggì dalla cella con un grido di terrore. Mi girai: gli occhi della Badessa erano ora spalancati e mi fissavano terrificanti e minacciosi. Mi chinai sopra di lei e mi parve di sentire un leggero fremito del cuore. Era morta o viva? Potevano vedere quei terribili occhi? Avevano visto? Non osavo guardarli, tirai il lenzuolo sopra il suo viso e corsi fuori cella e dal convento. Per non tornarci mai più.
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