Pripremajuci novu zbirku poezije vise puta sam se vracao na ovu pesmu.
А та даљина пуна паучинастог пољупца неспоразумом праг срца ми оплела, ослобађајући сласт грозничавог чекања твоје близине. Сада не чујем вреву звукова зрелог грожђа, само мудру тишину плавети додирујем тихо прстима мојим уплетеним у твоје пламтеће дамаре. Сањаш ли и ти слатке сокове, ослушкујеш ли мелемни занос кипућег срца жетвом чежње у преболу крви,мамљена, занесена и залуђена ројевима путеним дивно ,исконски лако, несвесна тактова грешног брујања дрхтаја, баш овако као што сам несвестан и ја. Не троши сузе, не чувај бедра за највећу сласну бол, не понижавај се бременом љубави , запали буктињу живота ,јер за тебе сам ватру од оца украо, и створен мучеником срећно прогнаним од оца бога, постао исповедник исповести прастарије од почетка света ,искљуцане јетре, и радујем се непомичном савешћу жени мом храму, пркосан и усправан пред кљуном орла узвишено волећи тебе сваким његовим кљуцајем.
La psicologia è una scienza ancora poco conosciuta dalla maggior parte delle persone.
Esiste
la volontà di non divulgare questo tipo di apprendimenti perché è più
vantaggioso tenere le briglie della psiche a disposizione di pochi,
abili nel manovrare la mente delle persone.
Se
tutti avessimo una buona preparazione psicologica, infatti, sarebbe
difficile controllare le convinzioni della gente e imporre atteggiamenti
prestabiliti e funzionali ai bisogni di chi comanda.
Coloro
che gestiscono il potere preferiscono fare in modo che la psicologia
sia ignorata (perché meno è diffusa la conoscenza e meno ci si può
rendere conto della persuasione occulta che agisce sui pensieri e sui
comportamenti) e approfittano della sovrapposizione tra psicologia
e psichiatria per confondere le acque.
Anche se non tutti lo sanno, però, la psicologia e la psichiatria studiano argomenti molto diversi tra loro.
La psicologia è la scienza che analizza i processi mentali, consci e inconsci, ma non si occupa dei danni cerebrali.
La psichiatria, invece, è la specializzazione della medicina preposta alla cura dei disturbi mentali.
Per fare lo psichiatra bisogna aver conseguito una laurea in medicina e poi aver preso una specializzazione in psichiatria.
Per fare lo psicologo bisogna avere una laurea in psicologia.
La
psicologia perciò non è una branca della medicina e non cura le
patologie psichiatriche, ma studia i meccanismi che sottendono i
comportamenti, per fare in modo che le persone si sentano bene con se
stesse e con gli altri.
Per
manipolare le coscienze bisogna conoscere la psicologia e usare
abilmente i meccanismi di difesa, cioè sapere in che modo la psiche
risponde alle difficoltà.
m
RAZZISMO E MANIPOLAZIONE DI MASSA
m
Per
ridurre l’impatto delle emozioni sgradevoli (paura, angoscia, rabbia,
insicurezza…), il nostro inconscio utilizza delle modalità di protezione
chiamate: meccanismi di difesa.
Tra questi, la proiezione e la rimozione sono quelli che si attivano più precocemente, cioè agiscono già nelle prime fasi della vita.
La proiezione spinge
a proiettare fuori di sé: atteggiamenti, pensieri e comportamenti, che
sono stati giudicati sbagliati, e porta a combatterli nel mondo esterno,
nel tentativo di eliminarli.
Un uso scorretto della proiezione scatena intolleranza e razzismo.
La rimozione rimuove
dalla consapevolezza tutto ciò che istintivamente è giudicato
irrisolvibile, nascondendo i conflitti dietro un’armonia apparente ma
priva di un reale equilibrio.
Un uso scorretto della rimozione ci porta a non vedere incongruenze e difficoltà, impedendoci di risolverle.
Conoscere
il funzionamento dei meccanismi di difesa è indispensabile per
comprendere come avviene la modificazione delle coscienze da parte di
chi gestisce i mezzi di comunicazione di massa.
Grazie alla proiezione e alla rimozione, infatti, è facile indirizzare i comportamenti della gente verso mete prestabilite:
la proiezione spinge a combattere i nemici interni spostandoli all’esterno
la rimozione consente
di rimuovere avvenimenti, emozioni e percezioni, considerati illeciti,
nascondendone le tracce fino a farle sparire dalla coscienza
Un uso improprio della proiezione e della rimozione crea sempre dei danni nello sviluppo psicologico, perché:
la proiezione non permette alla consapevolezza interiore di svilupparsi e blocca l’evoluzione delle parti immature della psiche
la rimozione impedisce la
conoscenza della totalità di se stessi, occultando nell’inconscio ciò
che è in contrasto con l’immagine idealizzata di sé
Ma i
danni che derivano dall’utilizzo scorretto dei meccanismi di difesa non
preoccupano chi gestisce il potere, che ha tutto l’interesse a
coltivare l’immaturità nella psiche della gente per renderla sottomessa e
dipendente.
Oggi
le armi più pericolose agiscono nel mondo interno e, grazie all’uso di
questi meccanismi, permettono di gestire le persone semplicemente
orientandone le convinzioni.
Ognuno di noi combatte quotidianamente una gran quantità di guerre interiori.
Guerre di cui sono state rimosse le cause e in cui sono stati proiettati all’esterno i nemici.
Da sempre, la proiezione e la rimozione sono usate a piene mani per creare barriere interiori, discriminazione e razzismo.
Un esempio significativo è quello dei ratti.
I
ratti sono animali intelligenti e socievoli, si addomesticano
facilmente, sono puliti e conducono una vita sociale ricca e, per tanti
aspetti, simile a quella umana.
Sono
collaborativi e solidali tra di loro e se, per esempio, un individuo
del gruppo si ammala, viene assistito dai compagni, che gli forniscono
cibo e calore.
Ma
nell’immaginario collettivo i ratti sono diventati creature disgustose,
combattute e disprezzate come se fossero responsabili di chissà quali
atrocità.
Poiché
sono molto adattabili, questi animali vivono di ciò che l’uomo butta
via: avanzi dell’alimentazione, stracci, cose vecchie.
E
proprio la capacità di selezionare gli scarti della nostra specie è
servita per proiettare su di loro il disgusto e l’ostilità.
Al punto che oggi sono considerati sporchi e portatori di malattie.
Nella
realtà, nessun roditore è responsabile di particolari patologie
trasmesse all’uomo o agli animali domestici (non più di qualunque altro
animale selvatico).
Inoltre
per essere potenzialmente esposti a un contagio non è sufficiente la
mera presenza dell’animale o il contatto diretto ma sarebbe necessario
che la cute lesa venisse a contatto con le feci o le urine dei roditori,
che queste ultime venissero ingerite in sufficiente quantità o che ci
si facesse mordere a sangue… tutte evenienze abbastanza rare e che
possono sempre essere evitate con un minimo di buon senso.
I ratti non provocano lo sporco e l’inquinamento causati dalla specie umana.
Ma,
grazie alla rimozione, è stato possibile cancellare questa
consapevolezza e alimentare l’idea impropria che ad essere sporchi siano
loro e non noi.
La proiezione in questo caso serve ad allontanare la sporcizia e l’infettività che interiormente gravano gli esseri umani.
Da
sempre, utilizzando impropriamente la proiezione e la rimozione, sono
stati presi di mira gli animali e, nel tempo, questo ci ha portato
a condannare e abiurare le nostre parti “istintive” fino a renderle
sinonimo di sporco, stupido e brutale.
La proiezione
è stata usata per proiettare sugli animali la sensitività, l’ingenuità e
l’espressione immediata e diretta delle emozioni, mentre la rimozione
ne ha occultato la ricchezza, l’importanza e il valore.
Disprezzare
gli animali e approfittarne è diventato così un comportamento lecito e
incentivato e, in questo modo, i potenti hanno autorizzato l’abuso e la
violenza dei più forti sui più deboli.
La
prepotenza sugli animali affonda le radici nello svilimento
dell’ingenuità e dei sentimenti e ha finito per trasformare la
sensibilità in una sorta di “malattia”, insana e perciò da curare.
Per l’uomo che non deve chiedere mai, infatti, la delicatezza d’animo, l’emotività e l’innocenza corrispondono a una patologia.
Ci
viene insegnato che dobbiamo essere impassibili, cinici e pronti a usare
qualsiasi mezzo pur di raggiungere il potere e il successo e, in questo
quadro, la condivisione e l’empatia, lungi dall’essere un valore, si
trasformano in una défaillance.
Oltre
che sugli animali, perciò, la vulnerabilità, l’emozionalità e la
semplicità vengono proiettate anche sulle persone sensibili.
Mentre, grazie alla rimozione, si perdono i valori della gentilezza e della comprensione.
L’uso
improprio dei meccanismi di difesa ha reso possibile ogni genere di
abuso su chiunque sia portatore di una emotività giudicata malsana, e ha
sostenuto una cultura basata sulla supremazia della forza e della
prepotenza.
Da tempo immemorabile questi meccanismi sono utilizzati come strumenti di manipolazione di massa.
Strumenti
mutuati dalla psicologia e taciuti ad arte per fare in modo che la
gente non ne capisca il funzionamento e non possa difendersi dall’uso
scorretto che ne viene fatto.
Per questo la psicologia continua a essere una scienza sconosciuta e confusa impropriamente con la psichiatria.
O my sweet creatures! You’ve come into being Out of the ejaculation Of my lusting brush Into the very skin of my Passionately stretching Painting board
PESARO. Sabato 10 settembre 2016, a Pesaro, presso
l’Alexander Museum Palace Hotel (Viale Trieste 20), alle ore 19,00, si
svolgerà la Conferenza “La Pace secondo don Tonino Bello”.
Introdurrà il Conte Alessandro Marcucci Pinoli di Valfesina, organizzatore dell’evento.
Sono passati 23 anni dal giorno (20 aprile 1993) in cui il Vescovo
don Tonino Bello ha dato l’ultimo colpo d’ala su questa terra in
direzione del cielo. A distanza di oltre vent’anni dal dies natalis di
don Tonino Bello, le impronte dei suoi passi, l’eco delle sue parole e
il germogliare della sua semina hanno acquisito ancora più valenza.
Lo dimostrerà, come sempre, il professor Francesco Lenoci,
Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, in
particolare prendendo spunto dal seguente meraviglioso Programma di don
Tonino Bello:
“Dobbiamo impegnarci in scelte di percorso, in tabelle di marcia:
non possiamo parlare di pace indicando le tappe ultime e saltando le intermedie!
Se non siamo capaci di piccoli perdoni quotidiani fra individuo e individuo,
tra familiari, tra comunità e comunità . . . .è tutto inutile!
La pace non è soltanto un pio sospiro, un gemito favoloso, un pensiero romantico. . . . .
Esiste
un legame sempre più stretto tra social e letteratura, dagli
esperimenti di riscrittura di classici della letteratura su Twitter fino
all’uso dei social come canali di promozione di determinati libri.
Di
questo fenomeno e della sua evoluzione nel tempo, abbiamo parlato con
Giulia Ciarapica, blogger che, negli anni, ha saputo costruirsi una
certa reputazione sui social proprio grazie al suo impegno a favore
della letteratura e della lettura.
Oltre
a essere una blogger, lei collabora con vari portali culturali, da
Solilibri a Ghigliottina.it fino al più generalista The Fielder,
conoscendo da vicino realtà tra loro molto diverse. Come valuta i
differenti modi di occuparsi di letteratura sul web?
Fino
a oggi ho avuto modo di occuparmi di letteratura su vari portali, come
sottolineava lei, e devo dire che, in ogni caso, ho sempre riscontrato
una grande libertà di opinione e di espressione. Credo però che ci sia
una differenza sostanziale tra le recensioni pubblicate su giornali come
Ghigliottina.it, in cui gioco forza il limite di spazio imposto non
consente sempre di approfondire l’analisi del testo, e gli articoli che
posso, ad esempio, pubblicare sul mio blog, in quanto spazio
autogestito.
Sololibri, Ghigliottina.it e The
Fielder – così come il blog Una casa sull’albero con cui ho iniziato da
poco una bella collaborazione – sono portali che mirano innanzitutto –
ognuno a suo modo, a seconda della linea del magazine o del giornale –
alla qualità di ciò che viene pubblicato. La prima cosa che secondo me
dovrebbe essere considerata è l’attenzione al dettaglio, all’analisi,
perché il lettore viene colpito innanzitutto dall’opinione che il
blogger o il giornalista ha di quel determinato libro e non si dovrebbe
mai sacrificare – come vedo spesso su molti blog – il giudizio critico
per l’enunciazione della trama.
Ghigliottina.it
e Sololibri hanno una linea molto simile: lì mi dedico alle ultime
uscite, pubblico interviste agli autori e articoli di letteratura. Con
The Fielder, invece, che è un magazine che ha una linea editoriale e
politica ben precisa, posso anche analizzare testi di non recente
uscita. Mi è capitato di recensire anche L’innocente di D’Annunzio o Il mio cuore è più stanco della mia voce di Oriana Fallaci, o ancora Pulizia di classe: il massacre di Kayn di Viktor Zaslavskij.
A proposito di web, in cosa si differenzia rispetto alle pagine culturali dei giornali cartacei? Cosa ha da offrire in più?
Il
blog è uno spazio autogestito e dunque è possibile un tentativo di
critica letteraria vera e propria; ha delle regole meno rigide, più
flessibili riguardo a ciò che viene pubblicato, e questo, soprattutto se
parliamo di letteratura, aiuta moltissimo nell’analisi del testo.
Insisto
sempre molto sulla questione “critica letteraria” perché, secondo me, è
qualcosa che stiamo perdendo. Provare a fare critica letteraria
comporta necessariamente uno sforzo maggiore, perché significa non solo
esporsi di più – nel bene e anche nel male – ma significa anche chiamare
a raccolta il proprio bagaglio culturale, attingere dalle opere lette,
dai classici, da ciò che abbiamo appreso e studiato, per approfondire
aspetti interessanti del libro in questione.
È
un lavoro indubbiamente faticoso e più “rischioso”, ma è anche più
bello. Il blog può diventare la nuova casa della critica letteraria
digitale, la critica letteraria 2.0.
Negli
ultimi tempi, si sta rinsaldando il legame tra social e letteratura,
eppure non mancano le voci critiche. Da blogger molto attiva su questi
canali, quali sono, secondo lei, i punti di forza della tendenza a
usarli per parlare di letteratura?
Di
questo legame ho parlato anche al Festival Internazionale del
Giornalismo di Perugia lo scorso aprile, insieme a Vera Gheno, Loredana
Lipperini, Maria Anna Patti di CasaLettori e Nadia Terranova. Ho ideato
questo panel di discussione proprio perché credo che la letteratura,
soprattutto oggi, passi anche attraverso i social. Io utilizzo
moltissimo Twitter e Facebook per parlare di libri, per consigliarli,
per condividere ovviamente i miei articoli. Il mio “pubblico” di lettori
l’ho creato grazie ai social network, attraverso cui posso esprimere le
mie opinioni e farmi leggere da molti altri appassionati. Anche se devo
dire che le più grandi soddisfazioni arrivano quando gente che non
aveva quasi mai aperto un libro in vita sua o che per qualche motivo
aveva smesso di leggere, mi scrive dicendomi che grazie ai miei consigli
di lettura e alle recensioni ha ritrovato la passione di un tempo.
Anche
rispetto all’attività di account come @CasaLettori su Twitter, o di
tutti gli scrittori, giornalisti e blogger che pure solo con 140
caratteri consigliano un libro, esprimono la loro opinione o
semplicemente postano una foto del loro “libro sul comodino”, i punti di
forza sono molteplici. Innanzitutto si parla di libri, che è
l’obiettivo principale; si possono creare dei veri e propri gruppi o
comunità (penso all’esperimento grandioso degli amici di Modus legendi
su Facebook) in cui i lettori si scambiano opinioni e consigli; si può
entrare in contatto diretto (e immediato, perché basta un click) con
l’autore, fargli delle domande, interagire.
C’è
chi dice che con i social la letteratura venga in qualche modo
“declassata”, che perda, in sostanza, la sua aura di nobiltà. Io credo
che non sia certo l’uso dei social network a squalificare la
letteratura, anzi. Questi sono solo strumenti ulteriori per discutere di
qualcosa di cui si parla ancora troppo poco.
Tra
le azioni strategiche tentate soprattutto su Facebook e Twitter per
promuovere la lettura in generale, o un libro in particolare, c’è
l’abbinamento della citazione a una fotografia della cover. Ci potranno
essere strade alternative? Pensiamo, ad esempio, alla creazione di
contenuti ad hoc su Facebook…
Certo,
di strade alternative ce ne sono, come ad esempio la creazione di un
gruppo di lettura su Facebook, in cui ogni mese si parli o si discuta di
un libro in particolare, oppure creando dei gruppi aperti al pubblico
in cui ci si scambiano consigli e recensioni di vario tipo. A mio avviso
la cosa principale sarebbe, in ogni caso, stimolare il pubblico a
esprimere opinioni personali (mirate, sensate e inerenti al libro,
ovviamente) più che la citazione in sé. Oppure citare una parte del
libro e “analizzarla” brevemente. La foto va più che bene, ma per
rendere “originale” e soprattutto per incuriosire chi vede quel post,
occorre aggiungere qualcosa di personale, magari anche provocatorio,
perché no. Tutto questo è possibile su Facebook o comunque su
piattaforme che non costringano il lettore a 140 caratteri, come
Twitter.
In quel caso è ovvio che il commento
si riduce a poche parole, quindi conviene citare un passo breve dal
libro, magari un’espressione concisa ma significativa che possa
ugualmente incuriosire.
Complice
Instagram, una delle mode del momento è postare foto di libri in vari
set adeguati o ai colori della copertina o al tema principale del libro
(un must è la foto di quest’ultimo con annessa una tazza di caffè o di
tè). Non si rischia così di banalizzare il tutto in funzione di una mera
rappresentazione iconografica?
Sì,
questo è vero. L’ho fatto anche io e sinceramente mi rendo conto che il
libro, al netto di una foto di quel tipo, può risultare quasi
secondario.
Siamo attirati dalle mode, questo è
palese, ma se da una parte proprio le mode aiutano a divulgare qualcosa
– come i libri – di cui ancora si parla poco, dall’altra il loro
inseguimento a tutti i costi rischia, come diceva lei, di banalizzare il
contenuto stesso, che è l’oggetto, lo scopo principale della
divulgazione.
Quando posto le foto su Instagram
ad esempio, cerco sempre di non ripetermi, cerco – nei limiti del
possibile – di inventare soluzioni nuove, accattivanti, che colpiscano
l’occhio sì, ma che, allo stesso tempo, permettano di focalizzare sempre
l’attenzione sul libro. Inserisco pochi elementi all’interno della
foto, spesso decido di “metterci la faccia”, perché secondo me è giusto
anche questo. Io mi prendo la responsabilità – e di responsabilità ne
abbiamo tanta noi – di suggerirti un libro, quindi è giusto che tu mi
possa vedere, che tu abbia, in qualche modo, anche un contatto meno
indiretto con me.
Mi viene in mente l’esperimento che ho fatto con la foto del libro Adua
di Igiaba Scego. Ricordo che per promuovere quel libro utilizzai la sua
“copertina interattiva”. Esistono libri che possono diventare dei
“libri persona” perché, come Adua, hanno disegnato sulla cover
il volto di una persona. Io presi la palla al balzo e lanciai l’Adua
selfie: metà del mio volto andava a combaciare perfettamente con la metà
del viso di Adua in copertina. Fu un grande successo, l’autrice ne fu
entusiasta e la Giunti (editore del libro, ndr) lanciò un # su Twitter
per rilanciare l’iniziativa.
Carlos Sánchez, o la stravagante vaghezza di vivere.
“Per vivere ho scelto mille imbarcaderi incerti
e ha ancorato la mia nave senza presunzioni né smarrimenti.
Ho portato sempre il necessario dentro di me
una piccola fiamma di luce brillante come un faro
e una quantità imprecisata di parole senza voce..”.
. . .
“Non ho visto ancora volare la poesia
nello spazio vuoto della stanza
sarà come sempre incollata
ai vetri sporchi della finestra..”
In un vecchio libro che spesso leggevo da ragazzo c’era un racconto
che ogni volta mi colpiva e che accendeva in me la voglia di viaggiare
attraverso paesi che neppure conoscevo. ‘Dagli Appennini alle Ande’,
tratto dal libro ‘Cuore’ di Edmondo De Amicis era il libro più amato che
avevamo da leggere a scuola e sul quale, ogni volta, scorrevano le
nostre lacrime di fanciulli. Allora le Ande potevano essere in qualsiasi
luogo dell’emisfero a me sconosciuto come dietro l’angolo di casa e,
per quanto il maestro si sperticasse a spiegarci in quale parte di mondo
fossero situate, a me sembravano così a portata di mano che una notte
sognai di poterci arrivare. E infine vi arrivai, ma avvenne tantissimi
anni dopo, quando non ero più un ragazzo e da tempo avevo smesso di
sognare. Solo allora ho capito il senso occulto del racconto, il peso di
quella ricerca, la fatica del viaggio, la gratificazione a un
volere/potere che sapeva di riconoscimento …
“Da grande ho imparato
che gli uccelli volano
guidati dalla necessità
che gli amori si dissolvono
nel vento del tempo
che le rivoluzioni
finiscono annegando
nei fiumi della storia
che l’eternità non dura.
Ma non mi dispero
continuo a cantare”.
E camminando canterò fin quando avrò fiato in gola, sembra voler dire
Carlos Sánchez, nel ultimo libro di poesie ‘Continuerò a cantare’ 2015,
e nel precedente ‘La poesia, le nuvole e l’aglio’ 2009, entrambi per le
Edizioni Librati.
A distanza di tempo quel piccolo libro, polveroso di anni, mi è
tornato tra le mani e non ho potuto far altro che aprirlo e rileggerlo
qua e là anche se in modo diverso di quando lo avevo letto da ragazzo,
quasi come un vademecum degli anni trascorsi, di una vita consumata tra
le righe, nelle frasi più dolci e talvolta amare che hanno fatto di quei
racconti una eccellenza della letteratura non solo italiana. A sua
volta l’argentino Carlos Sánchez nativo di Buenos Aires ha viaggiato per
lungo tempo per il mondo, dall’America Latina all’Estremo Oriente, per
poi raggiungere l’Europa e approdare in Italia, dopo aver percorso una
sorta di itinerario inverso: “Dalle Ande agli Appennini” dove, ‘dopo
molto camminare’ in fine si è fermato …
“Per fortuna
ho imparato più dalla gente
che dai libri
di certo essi
mi hanno dato le parole
i concetti
coi quali il mio intendimento
insieme al vissuto
si sono fatti carne”.
Ed è a quel ‘vissuto’ che il poeta fa più spesso riferimento nei suoi
versi che hanno il peso della leggerezza intrisa degli umori del tempo,
che ha come attinenza la scioltezza del momento, l’effimera agiatezza
della consolazione, “..il calcolo dei giorni è inesorabile”. La sua
carriera di professore di lettere ci dice ch’egli è uomo di grande
esperienza comunicativa e comunitaria che tuttavia, non ostenta nel
parlare né nello scrivere, mantenendosi dentro una linearità affatto
artificiosa che ‘dice quel che dice’ con la semplicità e l’uso del
lessico comune, quasi pedestre, “in questo meraviglioso quotidiano” …
“Appena
una timida parola
di uso volgare
stordita
tra tante parole
confusa
tra tanti concetti
invecchiata
fucilata
dimenticata-
Libertà”.
Libertà non è una parola presa a caso per chi arriva da paesi che in
passato hanno conosciuto le guerre e l’oppressione del potere, e non è
neppure l’esternazione di un dolore ormai cessato che il poeta riversa
nelle pagine di questo e dei suoi altri libri di poesia. Direi
piuttosto, usando le sue stesse parole “..che certi spazi sono rimasti
vuoti”, in quanto reiterati o, per così dire, ricompensati dalla
serenità successivamente acquisita, “..Sarà che mi sono distratto
oltremisura nell’aggiustare l’equilibrio nel suo contenitore; sarà che
ho scelto solo una stanza buia dove sviluppare le mie fondamenta di
vita” …
“Non so se sono confuso
se sono male orientato.
Non sono un uomo di cultura
non so se il Big Bang
si sia generato
solo per creare
in questo minuscolo pianeta
un Oriente e un Occidente..”
. . .
“..dove vivo abbaiano i cani
crescono gli orti
e gli uomini camminano.
Non ci sono luci che accecano
né grandi vanità
girando per le strade
si vive ridotti
stretti quasi senza parole.
Si sa che più in là
c’è il mondo
che ancora ricordo
nel suo terribile sgomento”.
Ma se la parola può risultare scarna non è per cinismo dell’autore,
né per ricercato minimalismo del poeta, affatto. Direi per lo più, per
“il mestiere incerto dell’ignoto” appreso, forse, dai suoi contatti con
la filosofia taoista dell’ – agire senza agire – che, nei paesi
orientali di grandi tradizioni, “..si veste del colore della poesia e la
trascende, e nel proprio divenire si cangia in trascendenza”, e che noi
(lettori) pur riusciamo a sentire nelle diverse liriche qui contenute
che la contemplano. “La poesia è uno dei più bei soprannomi che diamo
alla vita” – scriveva Jacques Prevert lanciandosi in un haiku risonante
amore per il futuro che verrà, e che Carlos Sánchez, sembra voler
suggerire nelle sue parole entro un’effimera eternità …
“L’aria è foriera
dei profumi dellinverno
solo con sforzo
posso immaginare la primavera
in agguato
i boccioli che eploderanno
senza dubbio
nella monotonia geniale
del tempo.
. . .
Non so quanto possa essere
rotondo questo mondo
che naviga
in uno spazio piccolo
di questo universo
non so neanche
se il grande spettacolo
sia degno dell’uomo”.
Siamo indubbiamente davanti a una sorta di ‘stravagante vaghezza di
vivere’ che pure trova nella poesia la ragione d’una propria esistenza
letteraria …
“Mentre cammino
mi frugo nelle tasche
le scarpe consumate
le mani screpolate
si annodano
vedo cartelli
con avvisi di pericolo
incroci
che non appaiono
sulle mappe.
Cammino, cammino
senza contare i passi
cammino
senza ricordare
quale fu il primo
l’istante
in cui mi trasformai
in un pellegrino.
Non so se arriverò
non so nemmeno dove”.
. . .
“Le distanze si misurano con i sogni
in quest’avventura fugace che è la vita”.
Per non dire delle ‘parole’ di cui fa uso nelle sue poesie, (ma è
giusto chiamarle poesie?, che forse cambierebbe il senso di ciò ch’egli
vuole comunicare?) …
“Le parole non sanno fare
provano inutilmente
ma non fanno
vanno troppo veloci
precedono di molto
le nostre buone intenzioni
che dopo si dimenticano.
. . .
Le avvolgo in carta regalo
e diventano oziose”.
Ma l’ozio è spesso foriero d’inganno, se chi medita lascia ‘fare
senza fare’, allora anche prepararsi un tè può ricevere quelle
attenzioni che si riversano in noi, in tutti noi, alllorché c’immergiamo
nel vuoto onirico delle pacate emozioni …
“Preparo un tè
per quel pezzetto irlandese
del nonno
che porto in questo antico
cuore
carico di altre cose.
. . .
Bevo il mio tè
camminando per la casa
senza pensieri
dedito come sono
alla vita”.
Questa ‘vita’ cui il poeta cerca e vuole dare caparbiamente un senso,
è in fondo la vita che noi tutti viviamo, seppure in modo diverso l’uno
dall’altro, e che sempre più spesso ci fa chiedere: perché? E per
quanto la domanda viaggi sospesa nell’aria in attesa che di una risposta
che non arriva, siamo costretti nell’attesa di ciò che sarà, domani o
in qualsiasi altro futuro, “alla catechesi di un dio vendicatore che ci
accompagna fin dall’infanzia: (..) non so a cosa serva spiarmi se dopo
non risponde. (..) Non sarà che alla fine lui avrà il mio volto?” …
“Ti seguo fino a perdermi
in un bosco
di alberi invertiti
cantano i cervi
le favole
le pietre che rimangono
sul camino
ti seguo
perché sei
l’unica cosa che ho
e non possiedo niente
se non questo seguirti
senza guardare dietro
sernza storia
come un lupo
che ulula
verso il mistero”.
Eppure sono certo di vivere, seppure sia assente nella mia ‘stravagante vaghezza di vivere’…
“Vivo in un mondo folle
dove la mia pazzia
passa inosservata
tra tante pazzie.
Nel manicomio
le ideologie sono morte
dicono i dottori
i laboratori farmaceutici
producono tranquillanti
per curare qualsiasi barlume
di libertà.
Così si calma il sistema
si democratizza la rassegnazione.
Gli dèi seduti
in una nuvola immensa
non si danno pace
e cercano senza consolazione
di scoprire
dove sia stato l’errore”.
Perché d’errore si tratta, non c’è dubbio alcuno …
“Una porta che si apre sul vuoto
una finestra senza vista
un soffitto che non copre il cielo
un uccello che non sa cantare
una montagna affondata in un pozzo
un sole misero che non illumina
un campo dove non cresce niente
un vento che non muove le foglie
un rumore di silenzi sordi
una rosa morta nel camino.
Visione fugace di un istante
che si ripete in questa mia vita”.
“Per vivere …
Ho visto centinaia di mari che ormai non ricordo con certezza
e un’incerta quantità di uccelli e pesci saltellanti.
Le tempeste hanno fustigato le mie vele senza abbatterle
e le correnti a volte mi hanno allontanato dalla rotta
venti tropicali ed antartici hanno colpito il mio volto
senza mai togliermi quel tenue sorriso da viaggiatore alla deriva.
Le grandi navi che ho incrociato nel mio lungo vagabondare
mi hanno lanciato segnali di pericolo che mi sono rifiutato
di decifrare …
Non ho mai accettato passeggeri a bordo nelle mie
lunghe traversate
una certa timidezza di fondo invadeva le mie parole
ed i miei occhi …
Mi sento un uomo fortunato in mezzo all’oceano
un uomo che niente attende, che nessuno attende:
forse la morte”.
C’è una strana alchimia in queste sue parole che risale il fiume
avito dell’esistenza e si trasforma in vita, come per “..l’illusione
d’inchiodare il tempo al muro”, o forse “..per smettere di pensare
all’avvenire”, mentre nel presente “tutto scorre come un fiume”. Perché
scrivo? Si chiede l’uomo Carlos Sánchez, approfittando per un istante
dell’assenza del poeta: “Scrivo ora, perché non ho voglia di riordinare
la stanza, di andare a comprare il giornale con le sue orrende notizie,
di abbandonare questa finestra che s’immerge, nelle montagne innevate,
perché è migliore sguitare in questo mestiere di vagabondo, di
collettore di parole, di diffide con me stesso e con questa società
aberrante … Scrivo perché mi viene voglia, scrivo per essere vivo,
scrivo senza animo d’eternità”.
..Solo ogni tanto mi trattengo nel cammino e guardo, ma solo perché ho imparato a guardare.
Carlos Sánchez è nato a Buenos Aires, in Argentina, nel dicembre
1942. Ha viaggiato in molti paesi dell’America Latina e del Medio ed
Estremo Oriente come consulente ed esperto in comunicazione sociale per
diversi organismi delle Nazioni Unite e della cooperazione
internazionale. È cittadino italiano e risiede a Folignano (Ascoli
Piceno). Ha lavorato come lettore e professore di Lingua e Letteratura
Ispanoamericana presso l’Università di Cassino, “La Sapienza” di Roma, e
“Suor Orsola Benincasa” di Napoli. Ha pubblicato: “Gestos”, poesie (ed.
Juan Mejía Baca, Lima, Perú, 1964); “America Latina, il mio paese”,
fotografie (ed. Experimenta, Napoli, 1976); “Appunti di vita”, poesie
(ed. Experimenta, Napoli, 1978); “Segno di terra”, romanzo, (ed, Lalli,
Siena, 1983); “L’inquilino scomodo”, poesie (ed. Gemina, Roma, 1991);
“La efímera dulzura de vivir”, poesie, (ed. Búho, Santo Domingo,
Repubblica Dominicana); “Doce cuentos para ser leídos en conchos y
voladoras”, racconti, (ed. Búho, S.D., Repubblica Dominicana); “Alta
Marea”, poesie, (ed. Quasar, Roma, 2005); “La poesia, le nuvole e
l’aglio” (collana “I Poeti di Smerilliana”, ed. Lìbrati, Ascoli Piceno,
2009), “Ricordati che non sai ricordare” (ed. Lìbrati, Ascoli Piceno,
2010), “Sempre ai confini del verso – Dispatri poetici in italiano”,
(Antologia a cura di Mia Lecomte, Ed. Chemins de tr@verse, Paris, 2011).
Le sue poesie si trovano nell’“Antologia della poesia argentina”, a
cura di Raúl Gustavo Aguirre, (ed. Librería Fausto, Buenos Aires,
Argentina, 1979). Attualmente collabora nell’Area Europea alla rivista
polidiomatica on-line d’arte e cultura “I Poeti Nomadi”. Poesie,
racconti e articoli, sono stati pubblicati in riviste e giornali
dell’America Latina e d’Europa, come pure su numerosi siti internet.
Una definizione che bene gli si attaglia lo ritrae come una “ mente
corporale senza tregua attraversata da un’infinità di molecole
materiali, memoriali, astratte. Le trafitture lasciano cicatrici. Le
cicatrici producono metafore. Globetrotter instancabile o sedentario che
indossa la maschera del Gaucho di Folignano, fotoreporter e scrittore,
cittadino precario di una catena seriale di città del mondo, ospite
provvisorio del deserto e del cielo, egli si ritrova alla fine nella
ricchezza di due lingue, il castigliano e l’italiano, il cui impasto
fantasmagorico regala al lettore i loro morsi e la loro dolcezza”.
Lieto di tornare a parlare del tuo essere poeta in questa società senza poesia. (G.M.)
Quanto ha ragione Chesterton: quando uno cessa di credere in Dio, non è che non crede più niente; invece crede a tutto.
C’è chi crede persino a Christopher Hitchens. Chi è, direte voi. Chi è stato: morto nel 2011, Hitchens era un giornalista, e polemista di successo. Marxista per una vita, materialista ateo militante, l’11 Settembre lo trasformò in neocon. Questo per dire che ha sempre sbagliato giudizio, prima e dopo. Doveva una parte della sua notorietà a dei libri violentissimi contro Madre Teresa: s’era dato la missione di smascherarla come “fanatica, fraudolenta, fondamentalista” e furba avida di denaro. Un suo libello derisorio dal titolo “La posizione della missionaria – Teoria e pratica di Madre Teresa” (si noti il fine riferimento sessuale) è stato la base per un video-documentario dal titolo sobrio: Angelo dell’Inferno, Hell’s Angel, diffuso anni fa dal network Channel 4.
In vista della prossima canonizzazione di Madre Teresa, il materiale calunnioso di Hitchens è stato ripreso da un gruppo dell’Università di Montreal (dipartimento di “psico-educazione”, qualunque cosa ciò significhi) che ne ha fatto uno studio pubblicato su una rivista universitaria Studies in Religion/Sciences religieuses che stabilisce in modo”assolutamente scientifico” che so, Madre Teresa non era una santa – al contrario – e la sua agiografia è stata esaltata da una ben orchestrata frode mediatica vaticana.
Un lettore importuno che mi sfida imperiosamente a provare a smentire Hitchins, se ne sono capace, mi ha obbligato a leggere un articolo sulla questione. Leggo l’atto d’accusa in breve elevato dagli esimi studiosi di psico-educazione di Montreal: il Vaticano nel farla santa non ha tenuto conto delle falle e difetti della suora, che consistono in ciò: “il suo modo alquanto dubbio di curare i malati, i suoi contatti politici discutibili, la sua gestione sospetta delle enormi somme che riceveva, e le sue opinioni eccessivamente dogmatiche riguardanti, in particolare, l’aborto, la contraccezione, il divorzio”.
Che dire? L’ultima accusa dovrebbe bastare a rivelare l’animus di ostilità demenziale dei critici: essi considerano un bene aborto, contraccezione e divorzio, e quindi non-santa una suora che considerava queste cose un male. “ Oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. […] Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisce a me di uccidere te, e a te di uccidere me”, disse quando le fu conferito il Nobel. E’ una frase di limpida verità e addolorata saggezza per chi abbia conservato il lume della ragione. Ma l’umanità d’oggi non vuol sentirsi evocare certi nessi casuali – aborto porta all’omicidio universale – perché preferisce tenersi attaccata ai suoi vizi e delitti; la stupidità volontaria rende persino degradante dover controbattere questo tipo di argomenti. Ma come profetizzò ancora Chesterton, verrà un momento in cui si dovrà combattere per affermare che due più due fa’ quattro: è questo, quindi turiamoci il naso e procediamo nell’umiliante compito.
foto: Nella stanza dei morenti
Anche le altre pecche che quelli imputano a Madre Teresa, son precisamente gli elementi che depongono a favore della sua santità; coi loro rilievi, i signori riescono solo a dimostrarsi totalmente ignoranti della dottrina cattolica, più generalmente dello spirito religioso, e tanto più della specifica spiritualità della suora albanese e delle sue missionarie.
Il suo “dubbio modo di curare i malati”? Ma Madre Teresa non curava i malati, non fondò ospedali e non era quella la sua intenzione; all’inizio, dedita ai “più poveri fra i poveri”, ne trovava fra la spazzatura di Calcutta, deformi, divorati dagli insetti, dementi, affamati e morenti abbandonati – e li portava in un locale nell’angolo del tempio di Kalì. Li lavava, li nutriva e li faceva sentire amati, vegliava la loro agonia accarezzandoli. Una vecchia disse: “Sono vissuta come una bestia e ora muoio come un angelo”.
foto: Li toccava molto
Non poteva guarirli; li toccava molto, loro la toccavano. Era quel contatto fisico di quei corpi piagati e spesso ripugnanti, che restituiva loro dignità e affetto. “Sono Gesù come povero”. Migliaia di giovani donne, studenti, turisti stranieri, vedendo come lei “toccava il povero”, hanno voluto anche loro “toccare il povero”, e molti sono rimasti nell’ordine da lei fondato. Toccare il povero era la sua pedagogia, la prima lezione: raccomandava alle sue suore di fare il sacrificio di astenersi dal toccare il povero, e lasciassero che lo facessero i volontari appena arrivati, gli studenti, i giovani stranieri, le ragazze di alta casta che venivano apposta – “touch the poor”, era tutto. In quello stanzone del Kalighat, ha accompagnato alla morte 23 mila poveri. Quelli di Montreal dicono che “medici hanno criticato la mancanza d’igiene, il cibo scarso, l’assenza di analgesici”, dicono che ci godeva a vederli soffrire. Migliaia di volontari, studenti, turisti, stranieri, hanno trovato un’altra verità: han toccato Cristo crocifisso.
foto: Una volontaria “touch the poor”
Madre Teresa “accettò donazioni da Duvalier” (il dittatore di Haiti) e da altri personaggi politici che non piacciono, magari anche dei tizzoni d’inferno. Ora, è persino imbarazzante dover ricordare che Madre Teresa volle vivere, con le sue suore di mera carità; “Chiedere l’elemosina, quando è fatto per Cristo, è un’attività bellissima”. per principio non rifiutava i doni, da chiunque venissero, perché deliberatamente aveva deciso di affidare sé, le suore, e le sue opere, in modo assoluto e incondizionato (“cieco”, diranno loro) alla Provvidenza – che non le mancò mai.
Anni fa, il cardinale di New York chiese che gli mandasse delle sue suorine per curare i malati di Aids, abbandonati da tutti; la malattia faceva paura e aveva fatto il vuoto intorno a questi sciagurati, spesso omosessuali che erano stati ricchissimi; lei accorse con le suore, allestì in un magazzino dismesso del porto un ricovero, e cominciò a prendersi cura dei malati,lavarli, cambiarli, raccoglierne le padelle con le feci infette…. Il cardinale le disse: “Posso dare alle sue suore uno stipendio piccolo, 600 dollari al mese”. Lei: “Perché, non esiste la Provvidenza a New York?”, e rifiutò. Come si vide dopo, anche a New York la Provvidenza c’era.
Oltretutto, è strano che la frase “chi sono io per giudicare?” venga lodata dal mondo quando la dice Francesco a favore degli invertiti, e sia invece imputata a colpa a Teresa perché ricevette soldi da Duvalier; da qualche parte delle Scritture è detto che le elemosine coprono molti peccati… chi siete voi per giudicare?
Un’altra cosa dev’essere chiara: per principio, le offerte che lei e le sue vergini ricevevano ogni giorno, alla sera dovevano essere tutte spese. Nella cassa del convento non doveva rimanere niente nella notte. Non fu un problema nei venticinque anni in cui lei e le sue ragazze operarono, del tutto ignorate dal mondo, a curare morenti, togliere i pidocchi a bambini di strada, soccorrere famiglie affamate, salvare migliaia di neonati abbandonati, ridare dignità ai lebbrosi: la Provvidenza era quella che potevano dare gli abitanti di Calcutta, riso, verdure, qualche medicinale. Una volta in cui erano rimaste senza nulla con cui sfamare i loro orfani, per uno sciopero imprevisto le scuole di Calcutta rimasero chiuse e le suore si videro recapitare due camion di panini per la prima colazione, destinate alle mense scolastiche, dono del municipio.
Le cose cambiarono dal 1967, quando la BBC diffuse il primo reportage su d lei, opera del giornalista Malcolm Muggeridge, che l’aveva scoperta e si convertì al cattolicesimo dopo quell’inchiesta. Allora cominciarono a piovere donazioni milionarie da ricche personalità, sinceramente colpite, che volevano visitarla. Lei riceveva tutti nel suo ufficetto, ringraziava qualunque fosse la cifra; una volta fece alzare un imprenditore svizzero che le aveva appena staccato un assegno di un milione di franchi, perché era arrivata una coppia di fidanzati di Calcutta che aveva deciso di dare a lei le rupie messe da parte per la festa di nozze – grandi e costose feste in India, da cui dipende la considerazione sociale che si riscuote tra vicini e parenti – perché quelli, disse, faranno un matrimonio da poveri, quindi il loro sacrificio è maggiore di quello dello svizzero.
Del resto esortava: “Amatevi fino a farvi male; se non fa male, che amore è?”.
Anche quando riceveva un milione, a sera la cifra era tutta spesa. Non si tennero mai conti nel convento; la Madre riteneva che se obbligava una delle sue suore – che avevano fatto il voto di servire i più poveri fra i poveri in castità, obbedienza e povertà – ad occuparsi di libri contabili, l’avrebbe obbligata a tradire la sua vocazione e avrebbe messo in pericolo la sua anima. “Dove sono finite quelle enormi somme?”, chiedono quelli di Montreal. Eppure la risposta è facile. E’ nei 600 conventi, ricoveri, orfanatrofi, città di lebbrosi che aprì in India, nei biglietti aerei per spedire 5 mila suore e 45o fratelli maschi nei quattro continenti e – da quando l’URSS è crollata- nei paesi dell’Est dove prima era vietato entrare; sempre a prendersi cura dei “più poveri dei poveri”. Anche solo a riordinare e pulire i monolocali dei vecchi sospettosi, a lavare i loro panni, a fare le serve ai miserabili – là preda di miserie di tipo nuovo unite a quelle di sempre. Alcune delle sue suore che incontrai in India al funerale della Madre – belle, giovani polacche – venivano dalla Russia. Continuavano il lavoro anche a Calcutta. “Ma per noi è essere in vacanza; qui togli i pidocchi ai bambini e loro ti sono grati. Nell’Est, i poveri sono anche cattivi”, dissero come un dato di fatto. I miserabili là avevano perso l’idea stessa che potesse esistere la bontà, non si fidavano, si chiudevano a riccio, spesso erano alcolizzati violenti, incapaci di riconoscenza. Ci voleva altro per scoraggiare quelle suorine, come si capiva dal loro intrepido sorriso.
Anche Bruce Chatwin volle vederla, seguirla nei suoi giri. Quel giorno avevano trovato un lebbroso abbandonato nella spazzatura di Calcutta; le piaghe delle mani e dei piedi, trascurate, s’erano riempite di grassi vermi, larve di moscone. Madre Teresa e le sue suore, con delle pinze e dei tamponi disinfettati, avevano cominciato ad estrarglieli. “Non lo farei per un milione di dollari”, scappò detto a Chatwin. “Nemmeno io”, rispose lei. Lo faceva perché quel lebbroso era il Cristo – quello che sulla croce rantola “Ho sete” – che lei aveva giurato di servire.
Ecco, questo era il suo rapporto col denaro. Chi siete voi per giudicare. Specialmente questo Hitchins, scelto come autorità esperta dai cosiddetti studiosi di Montreal; uno che ha scritto di sé. « Sono un ateo. Non sono neutrale rispetto alla religione, le sono ostile. Penso che essa sia un male, non solo una falsità. E non mi riferisco solo alla religione organizzata, ma al pensiero religioso in sé e per sé »
E’ proprio vero che siete disposti a credere a chiunque, a tutto, pur di non credere a Dio fra noi.
Io non ho avuto la fortuna di parlare con Madre Teresa; quando il giornale mi mandò a Calcutta, era già ricoverata, poi fu il funerale. Al funerale vennero le autorità internazionali. Ricordo il nostro presidente Oscar Luigi Scalfaro, durante la visita dell’orfanatrofio dei bambini abbandonati, il Nirmala Shisha Bahvan. Una suora prese un bambino dalle centinaia di culle e lo tese a Scalfaro; il nostro cattolicissimo presidente fece un salto indietro, sul volto gli si dipinse, oltre lo schifo, il terrore vile di essere infettato. Dalla carità, evidentemente.
Ovviamente direte che io (non Hitchins, che si è auto-dichiarato “ostile alla religione”) sono prevenuto a favore. Ebbene, è perché – oltre le altre opere di Madre Teresa – ho visto, a Calcutta, oltre la ferrovia, lo Shanti Nagar, la Città della Pace come l’aveva chiamata lei, insomma l’ospizio per i lebbrosi. In India, la maledizione della lebbra colpisce non solo il malato, ma la sua famiglia allargata. Ho visto anche l’ospedale dei lebbrosi di Mumbai, anche quello tenuto da suore italiane; un ospedale moderno, efficiente, che ricovera migliaia di lebbrosi nei vari stadi del male. La cosa sconvolgente è che attorno a questo edificio di vetro e cemento, s’è agglomerata uno slum enorme, un ghetto disperato delle madri, mogli, padri e dei figli dei ricoverati; un agglomerato di stracci più che di capanne, con rigagnoli di liquami aperti – perché i familiari sono stati rifiutati dal loro villaggio, dai loro vicini. Ho visto mutare la faccia di un padre di famiglia a cui avevano diagnosticato il morbo di Hansen; perdeva tutto, la mendicità e l’umiliazione sarebbero state il suo destino, e lo sapeva.
Nello Shanti Nagar ho visto – credetelo o no –lebbrosi felici.
No, non è un ospedale quello che Madre Teresa ha voluto per loro. E’ una piccola città autosufficiente, dove i lebbrosi lavorano e vivono come vogliono. Sono loro che tessono – con le loro mani senza dita – i sari delle suore di Madre Teresa, di quella cotonina bianca con la striscia azzurrina; fabbricano le stampelle e le protesi per i lebbrosi come loro; è il loro incarico, e con questo hanno avuta restituita la loro dignità di esseri umani, non mostri da cui fuggire.
Sono i lebbrosi stessi a produrre il loro cibo, coltivando i loro orti. Nello Shanti Nagar ho visto tanti fiori e piante; e due piscine, due laghetti rettangolari belli e limpidi: uno per allevare le anatre, l’altro un vivaio per le carpe e le tinche. Questi due ponds erano onnipresenti nei villaggi indiani, da millenni; servivano, diciamo, a fornire l’apporto proteico. Erano esattamente quelli che Gandhi avrebbe voluto per tutta l’India liberata: non una grande potenza, senza industrie moderne, ma piena di villaggi autosufficienti, ciascuno con le sue due piscine, i suoi telai e le sue capanne familiari – swadeshi, autosufficienza, autarchia a misura umana. Morto Gandhi, il progetto è stato abbandonato; realizzato veramente, non fu mai. Sopravvive solo grazie a Madre Teresa, nella Città della Pace. Era possibile. Lo è ancora e sempre. Madre Teresa ha dato a Gandhi ciò che a Gandhi mancava, ne ha completato l’opera.
In collaborazione con Mercanteinfiera e il
Comune di Parma la mostra **Sarah Moon. Qui e Ora. Ici et Maintenant**,
curata da Carla Sozzani in occasione del premio annuale di
Mercanteinfiera, inaugura la nuova sede per la fotografia a Palazzetto
Eucherio San Vitale in Parma, dal 16 settembre al 15 ottobre 2016. Sarah
Moon (Vichy, 1941), artista francese tra le maggiori fotografe
contemporanee, da molti anni indaga la bellezza e lo scorrere del tempo.
L’amicizia e l’affinità tra Carla Sozzani e Sarah Moon risalgono alla
fine degli anni Settanta quando iniziano a collaborare insieme per Vogue
Italia e poi Elle Italia. La prima mostra alla Galleria Carla Sozzani è
nel 1996, “120 fotografie” curata dal Centre National
de la Photographie di Parigi, a cui è seguita la mostra “ Fotografie”
nel 2002 e infine la mostra “fil rouge” nel 2006 con fotografie,
immagini in movimento, testi, suoni e musica che nascevano
dall’elaborazione delle fiabe e in particolare dal “Barbablù” di Charles
Perrault. Le visioni di Sarah Moon spesso schiudono un universo magico
di immagini poetiche. Di lei si sa poco. Raramente parla di sé, nascosta
dietro il suo eterno berretto che sembra proteggerne la timidezza
fragile e delicata. Come dice lei stessa, le sue immagini parlano di
lei. Le sue fotografie sono così misteriose, così cariche di tensione
drammatica e tuttavia riservate, che sembrano un intero mondo visto
attraverso uno spiraglio luminoso. L’alfabeto segreto della Moon rimanda
alla sfera dell’emotività, dell’intimo, e mette in scena una realtà
immaginaria, filtrata dal ricordo e dall’inconscio. Il suo linguaggio
antinarrativo evoca momenti, sensazioni, coincidenze e bellezza.
“Anche al principio ho sempre voluto sfuggire al linguaggio codificato
del glamour. Quello che cercavo era più intimo, erano le quinte ad
interessarmi, un diaframma sospeso prima che il gesto si compia, un
movimento al rallentatore…come quello delle donne che si allontanano di
spalle.” – scrive Sarah Moon nel libro Coincidences, pubblicato da
Delphire nel 2001. “Sarah Moon. Qui e Ora. Ici et Maintenant” racconta
un incontro d’autore, inatteso e intenso con gli affreschi
rinascimentali di Palazzetto Ducale nel Parco Ducale di Parma e apre un
dialogo inedito con la fotografia contemporanea.
A Parma, presso il Palazzetto Eucherio San Vitale (Parco Ducale) – dal 16 settembre al 15 ottobre 2016.
Inaugurazione: venerdì 16 settembre 2016, ore 18
In mostra: da sabato 17 settembre fino a sabato 15 ottobre 2016
da martedì a venerdì, ore 13.00 -19.00
sabato e domenica, ore 10.30 -13.00 e 15.00 -18.30
Sarah Moon, è un’artista francese di spicco e tra le maggiori fotografe contemporanee, da molti anni indaga la bellezza e lo scorrere del tempo. L’amicizia e l’affinità tra Carla Sozzani e Sarah Moon risalgono alla fine degli anni Settanta quando iniziano a collaborare insieme per Vogue Italia e poi Elle Italia. La prima mostra alla Galleria Carla Sozzani è nel 1996, 120 fotografie curata dal Centre National de la Photographie di Parigi, a cui è seguita la mostra Fotografie nel 2002 e infine la mostra Fil rouge nel 2006. Le visioni di Sarah Moon spesso schiudono un universo magico di immagini poetiche: le sue fotografie sono così misteriose, cariche di tensione drammatica e tuttavia riservate, che sembrano un intero mondo visto attraverso uno spiraglio luminoso. L’alfabeto segreto della Moon rimanda alla sfera dell’emotività, dell’intimo, e mette in scena una realtà immaginaria, filtrata dal ricordo e dall’inconscio. La mostra curata da Carla Sozzani, in occasione della quarta edizione del Premio Mercanteinfiera, racconta un incontro d’autore intenso e apre un dialogo inedito con la fotografia contemporanea.
------------------------------------
A major name in contemporary photography is to star in the third
“Mercanteinfiera Off”, the cultural fringe event promoted by Fiere di
Parma and the Municipality of Parma, as part of the homonymous antiques
and modern and vintage collectables festival running from 1 to 9
October. The artist is Sarah Moon, a French photographer whose work
for many years has explored beauty and the passage of time. Her images
will be displayed at the “Sarah Moon. Qui e Ora. Ici et Maintenant”
exhibition curated by 2016 Mercanteinfiera Prize winner Carla Sozzani.
Running from 16 September – 15 October in the Palazzetto Eucherio
Sanvitale building, set in the picturesque Parco Ducale, the exhibition
is a journey through a magical world of poetic images: mysterious
photographs, dramatically charged and yet intimate, that create the
sensation of looking through bright portals onto an entire world.
Sarah Moon, is a leading French artist and one of the most important contemporary photographers.
For many years her work has captured beauty and the passing of time.
The friendship and affinity between Carla Sozzani and Sarah Moon date
back to the latc seventics when they began working together for Italian
Vogue and then Elle. The first exhibition at the Galleria Carla Sozzani
was in 1996, 120 fotografie curated by the Centre National de la
Photographie in Paris, followed by Fotografie in 2002 and finally Fil
rouge in 2006. Sarah Moon’s visions often capture a magical universe of
poetic imagery: her photographs are so mysterious, charged with dramatic
tension and yet reserved, that they appear like a shining peephole into
a whole other world. Moon’s secret language whispers from the realms of
emotion and intimacy, and weaves together an imaginary reality filtered
through memory and the unconscious. The show, curated by Carla
Sozzani on the fourth edition of Premio Mercanteinfiera, is an intense
artistic encounter and opens an original dialogue with contemporary
photography.
Palazzetto Eucherio Sanvitale (Parma) – from 16 September to 15 October 2016
Inauguration: Friday 16 September 2016, 6:00 PM
Exhibition: from 16 September to 15 October 2016
Tuesday – Friday, 1:00 PM – 7:00 PM
Saturday and Sunday, 10:30 AM – 1:00 PM and 3:00 PM to 6:30 PM
Sarah Moon, is a leading French artist and one of the most important contemporary photographers. For many years her work has captured beauty and the passing of time. The friendship and affinity between Carla Sozzani and Sarah Moon date back to the latc seventics when they began working together for Italian Vogue and then Elle. The first exhibition at the Galleria Carla Sozzani was in 1996, 120 fotografie curated by the Centre National de la Photographie in Paris, followed by Fotografie in 2002 and finally Fil rouge in 2006. Sarah Moon’s visions often capture a magical universe of poetic imagery: her photographs are so mysterious, charged with dramatic tension and yet reserved, that they appear like a shining peephole into a whole other world. Moon’s secret language whispers from the realms of emotion and intimacy, and weaves together an imaginary reality filtered through memory and the unconscious. The show, curated by Carla Sozzani on the fourth edition of Premio Mercanteinfiera, is an intense artistic encounter and opens an original dialogue with contemporary photography.
La misericordia vive e respira nell’azzurro tramite la
purezza, della innocenza e la devozione con l’amore solitario e cosi
piena delle ombre della gente viva la profondità nella profondità che
accarezzo con dimenticati bollori del infinito buio, mi introduco con la
profumata lacrima nella pupilla e divento il seme della libidine
respirando il rumore delle onde insaziabili fecondo le profumate lacrime
con la leggerezza del parto di domani quel mio in adorazione del suo viso d’una vergine, quel mio nella allegria circondato con i desideri nel confine della speranza quel
mio del dormiente, del ricercatore e dei illusionisti che questa notte
si scosteranno dal nutrimento della propria anima meravigliati del
profumo del concepimento della lacrima che in profondità dove nulla
marcisce nutre il feto senza tempo, del cavaliere e del portavoce
tamburino che portano le notizie di Poseidone che riconosce la propria disfatta
e sulle ginocchia chiede la misericordia offrendo il suo scettro
davanti al mio sguardo coraggioso pieno d’amore per la mia sposa la
nuova profumata lacrima una volta la sua schiava, e li offro la
misericordia tramite il mio embrione, il germe, il seme e tutta la mia
prole che vive e respira nell’azzurro. Mika Vlacovic Vladisavljevic na italijanski prevela Mirjana Dobrilla
Mi resta il tramonto e la sua linea perfetta colorata ancora per un sogno. Tace l'orizzonte come il mio silenzio. Mi fermo qui amore mio non ho posto diverso dove guardare. Ti nascondo nell'ultimo sole.