Maurizio Blondet
21 marzo 2016
Quanto ha ragione Chesterton: quando uno cessa di credere in Dio, non è che non crede più niente; invece crede a tutto.
C’è chi crede persino a Christopher Hitchens. Chi è, direte voi. Chi è stato: morto nel 2011, Hitchens era un giornalista, e polemista di successo. Marxista per una vita, materialista ateo militante, l’11 Settembre lo trasformò in neocon. Questo per dire che ha sempre sbagliato giudizio, prima e dopo. Doveva una parte della sua notorietà a dei libri violentissimi contro Madre Teresa: s’era dato la missione di smascherarla come “fanatica, fraudolenta, fondamentalista” e furba avida di denaro. Un suo libello derisorio dal titolo “La posizione della missionaria – Teoria e pratica di Madre Teresa” (si noti il fine riferimento sessuale) è stato la base per un video-documentario dal titolo sobrio: Angelo dell’Inferno, Hell’s Angel, diffuso anni fa dal network Channel 4.
In vista della prossima canonizzazione di Madre Teresa, il materiale calunnioso di Hitchens è stato ripreso da un gruppo dell’Università di Montreal (dipartimento di “psico-educazione”, qualunque cosa ciò significhi) che ne ha fatto uno studio pubblicato su una rivista universitaria Studies in Religion/Sciences religieuses che stabilisce in modo”assolutamente scientifico” che so, Madre Teresa non era una santa – al contrario – e la sua agiografia è stata esaltata da una ben orchestrata frode mediatica vaticana.
Un lettore importuno che mi sfida imperiosamente a provare a smentire Hitchins, se ne sono capace, mi ha obbligato a leggere un articolo sulla questione. Leggo l’atto d’accusa in breve elevato dagli esimi studiosi di psico-educazione di Montreal: il Vaticano nel farla santa non ha tenuto conto delle falle e difetti della suora, che consistono in ciò: “il suo modo alquanto dubbio di curare i malati, i suoi contatti politici discutibili, la sua gestione sospetta delle enormi somme che riceveva, e le sue opinioni eccessivamente dogmatiche riguardanti, in particolare, l’aborto, la contraccezione, il divorzio”.
Che dire? L’ultima accusa dovrebbe bastare a rivelare l’animus di ostilità demenziale dei critici: essi considerano un bene aborto, contraccezione e divorzio, e quindi non-santa una suora che considerava queste cose un male. “ Oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa. […] Perché se una madre può uccidere il suo proprio figlio, non c’è più niente che impedisce a me di uccidere te, e a te di uccidere me”, disse quando le fu conferito il Nobel. E’ una frase di limpida verità e addolorata saggezza per chi abbia conservato il lume della ragione. Ma l’umanità d’oggi non vuol sentirsi evocare certi nessi casuali – aborto porta all’omicidio universale – perché preferisce tenersi attaccata ai suoi vizi e delitti; la stupidità volontaria rende persino degradante dover controbattere questo tipo di argomenti. Ma come profetizzò ancora Chesterton, verrà un momento in cui si dovrà combattere per affermare che due più due fa’ quattro: è questo, quindi turiamoci il naso e procediamo nell’umiliante compito.
foto: Nella stanza dei morenti
Anche le altre pecche che quelli imputano a Madre Teresa, son precisamente gli elementi che depongono a favore della sua santità; coi loro rilievi, i signori riescono solo a dimostrarsi totalmente ignoranti della dottrina cattolica, più generalmente dello spirito religioso, e tanto più della specifica spiritualità della suora albanese e delle sue missionarie.
Il suo “dubbio modo di curare i malati”? Ma Madre Teresa non curava i malati, non fondò ospedali e non era quella la sua intenzione; all’inizio, dedita ai “più poveri fra i poveri”, ne trovava fra la spazzatura di Calcutta, deformi, divorati dagli insetti, dementi, affamati e morenti abbandonati – e li portava in un locale nell’angolo del tempio di Kalì. Li lavava, li nutriva e li faceva sentire amati, vegliava la loro agonia accarezzandoli. Una vecchia disse: “Sono vissuta come una bestia e ora muoio come un angelo”.
foto: Li toccava molto
Non poteva guarirli; li toccava molto, loro la toccavano. Era quel contatto fisico di quei corpi piagati e spesso ripugnanti, che restituiva loro dignità e affetto. “Sono Gesù come povero”. Migliaia di giovani donne, studenti, turisti stranieri, vedendo come lei “toccava il povero”, hanno voluto anche loro “toccare il povero”, e molti sono rimasti nell’ordine da lei fondato. Toccare il povero era la sua pedagogia, la prima lezione: raccomandava alle sue suore di fare il sacrificio di astenersi dal toccare il povero, e lasciassero che lo facessero i volontari appena arrivati, gli studenti, i giovani stranieri, le ragazze di alta casta che venivano apposta – “touch the poor”, era tutto. In quello stanzone del Kalighat, ha accompagnato alla morte 23 mila poveri. Quelli di Montreal dicono che “medici hanno criticato la mancanza d’igiene, il cibo scarso, l’assenza di analgesici”, dicono che ci godeva a vederli soffrire. Migliaia di volontari, studenti, turisti, stranieri, hanno trovato un’altra verità: han toccato Cristo crocifisso.
foto: Una volontaria “touch the poor”
Madre Teresa “accettò donazioni da Duvalier” (il dittatore di Haiti) e da altri personaggi politici che non piacciono, magari anche dei tizzoni d’inferno. Ora, è persino imbarazzante dover ricordare che Madre Teresa volle vivere, con le sue suore di mera carità; “Chiedere l’elemosina, quando è fatto per Cristo, è un’attività bellissima”. per principio non rifiutava i doni, da chiunque venissero, perché deliberatamente aveva deciso di affidare sé, le suore, e le sue opere, in modo assoluto e incondizionato (“cieco”, diranno loro) alla Provvidenza – che non le mancò mai.
Anni fa, il cardinale di New York chiese che gli mandasse delle sue suorine per curare i malati di Aids, abbandonati da tutti; la malattia faceva paura e aveva fatto il vuoto intorno a questi sciagurati, spesso omosessuali che erano stati ricchissimi; lei accorse con le suore, allestì in un magazzino dismesso del porto un ricovero, e cominciò a prendersi cura dei malati,lavarli, cambiarli, raccoglierne le padelle con le feci infette…. Il cardinale le disse: “Posso dare alle sue suore uno stipendio piccolo, 600 dollari al mese”. Lei: “Perché, non esiste la Provvidenza a New York?”, e rifiutò. Come si vide dopo, anche a New York la Provvidenza c’era.
Oltretutto, è strano che la frase “chi sono io per giudicare?” venga lodata dal mondo quando la dice Francesco a favore degli invertiti, e sia invece imputata a colpa a Teresa perché ricevette soldi da Duvalier; da qualche parte delle Scritture è detto che le elemosine coprono molti peccati… chi siete voi per giudicare?
Un’altra cosa dev’essere chiara: per principio, le offerte che lei e le sue vergini ricevevano ogni giorno, alla sera dovevano essere tutte spese. Nella cassa del convento non doveva rimanere niente nella notte. Non fu un problema nei venticinque anni in cui lei e le sue ragazze operarono, del tutto ignorate dal mondo, a curare morenti, togliere i pidocchi a bambini di strada, soccorrere famiglie affamate, salvare migliaia di neonati abbandonati, ridare dignità ai lebbrosi: la Provvidenza era quella che potevano dare gli abitanti di Calcutta, riso, verdure, qualche medicinale. Una volta in cui erano rimaste senza nulla con cui sfamare i loro orfani, per uno sciopero imprevisto le scuole di Calcutta rimasero chiuse e le suore si videro recapitare due camion di panini per la prima colazione, destinate alle mense scolastiche, dono del municipio.
Le cose cambiarono dal 1967, quando la BBC diffuse il primo reportage su d lei, opera del giornalista Malcolm Muggeridge, che l’aveva scoperta e si convertì al cattolicesimo dopo quell’inchiesta. Allora cominciarono a piovere donazioni milionarie da ricche personalità, sinceramente colpite, che volevano visitarla. Lei riceveva tutti nel suo ufficetto, ringraziava qualunque fosse la cifra; una volta fece alzare un imprenditore svizzero che le aveva appena staccato un assegno di un milione di franchi, perché era arrivata una coppia di fidanzati di Calcutta che aveva deciso di dare a lei le rupie messe da parte per la festa di nozze – grandi e costose feste in India, da cui dipende la considerazione sociale che si riscuote tra vicini e parenti – perché quelli, disse, faranno un matrimonio da poveri, quindi il loro sacrificio è maggiore di quello dello svizzero.
Del resto esortava: “Amatevi fino a farvi male; se non fa male, che amore è?”.
Anche quando riceveva un milione, a sera la cifra era tutta spesa. Non si tennero mai conti nel convento; la Madre riteneva che se obbligava una delle sue suore – che avevano fatto il voto di servire i più poveri fra i poveri in castità, obbedienza e povertà – ad occuparsi di libri contabili, l’avrebbe obbligata a tradire la sua vocazione e avrebbe messo in pericolo la sua anima. “Dove sono finite quelle enormi somme?”, chiedono quelli di Montreal. Eppure la risposta è facile. E’ nei 600 conventi, ricoveri, orfanatrofi, città di lebbrosi che aprì in India, nei biglietti aerei per spedire 5 mila suore e 45o fratelli maschi nei quattro continenti e – da quando l’URSS è crollata- nei paesi dell’Est dove prima era vietato entrare; sempre a prendersi cura dei “più poveri dei poveri”. Anche solo a riordinare e pulire i monolocali dei vecchi sospettosi, a lavare i loro panni, a fare le serve ai miserabili – là preda di miserie di tipo nuovo unite a quelle di sempre. Alcune delle sue suore che incontrai in India al funerale della Madre – belle, giovani polacche – venivano dalla Russia. Continuavano il lavoro anche a Calcutta. “Ma per noi è essere in vacanza; qui togli i pidocchi ai bambini e loro ti sono grati. Nell’Est, i poveri sono anche cattivi”, dissero come un dato di fatto. I miserabili là avevano perso l’idea stessa che potesse esistere la bontà, non si fidavano, si chiudevano a riccio, spesso erano alcolizzati violenti, incapaci di riconoscenza. Ci voleva altro per scoraggiare quelle suorine, come si capiva dal loro intrepido sorriso.
Anche Bruce Chatwin volle vederla, seguirla nei suoi giri. Quel giorno avevano trovato un lebbroso abbandonato nella spazzatura di Calcutta; le piaghe delle mani e dei piedi, trascurate, s’erano riempite di grassi vermi, larve di moscone. Madre Teresa e le sue suore, con delle pinze e dei tamponi disinfettati, avevano cominciato ad estrarglieli. “Non lo farei per un milione di dollari”, scappò detto a Chatwin. “Nemmeno io”, rispose lei. Lo faceva perché quel lebbroso era il Cristo – quello che sulla croce rantola “Ho sete” – che lei aveva giurato di servire.
Ecco, questo era il suo rapporto col denaro. Chi siete voi per giudicare. Specialmente questo Hitchins, scelto come autorità esperta dai cosiddetti studiosi di Montreal; uno che ha scritto di sé. « Sono un ateo. Non sono neutrale rispetto alla religione, le sono ostile. Penso che essa sia un male, non solo una falsità. E non mi riferisco solo alla religione organizzata, ma al pensiero religioso in sé e per sé »
E’ proprio vero che siete disposti a credere a chiunque, a tutto, pur di non credere a Dio fra noi.
Io non ho avuto la fortuna di parlare con Madre Teresa; quando il giornale mi mandò a Calcutta, era già ricoverata, poi fu il funerale. Al funerale vennero le autorità internazionali. Ricordo il nostro presidente Oscar Luigi Scalfaro, durante la visita dell’orfanatrofio dei bambini abbandonati, il Nirmala Shisha Bahvan. Una suora prese un bambino dalle centinaia di culle e lo tese a Scalfaro; il nostro cattolicissimo presidente fece un salto indietro, sul volto gli si dipinse, oltre lo schifo, il terrore vile di essere infettato. Dalla carità, evidentemente.
Ovviamente direte che io (non Hitchins, che si è auto-dichiarato “ostile alla religione”) sono prevenuto a favore. Ebbene, è perché – oltre le altre opere di Madre Teresa – ho visto, a Calcutta, oltre la ferrovia, lo Shanti Nagar, la Città della Pace come l’aveva chiamata lei, insomma l’ospizio per i lebbrosi. In India, la maledizione della lebbra colpisce non solo il malato, ma la sua famiglia allargata. Ho visto anche l’ospedale dei lebbrosi di Mumbai, anche quello tenuto da suore italiane; un ospedale moderno, efficiente, che ricovera migliaia di lebbrosi nei vari stadi del male. La cosa sconvolgente è che attorno a questo edificio di vetro e cemento, s’è agglomerata uno slum enorme, un ghetto disperato delle madri, mogli, padri e dei figli dei ricoverati; un agglomerato di stracci più che di capanne, con rigagnoli di liquami aperti – perché i familiari sono stati rifiutati dal loro villaggio, dai loro vicini. Ho visto mutare la faccia di un padre di famiglia a cui avevano diagnosticato il morbo di Hansen; perdeva tutto, la mendicità e l’umiliazione sarebbero state il suo destino, e lo sapeva.
Nello Shanti Nagar ho visto – credetelo o no –lebbrosi felici.
No, non è un ospedale quello che Madre Teresa ha voluto per loro. E’ una piccola città autosufficiente, dove i lebbrosi lavorano e vivono come vogliono. Sono loro che tessono – con le loro mani senza dita – i sari delle suore di Madre Teresa, di quella cotonina bianca con la striscia azzurrina; fabbricano le stampelle e le protesi per i lebbrosi come loro; è il loro incarico, e con questo hanno avuta restituita la loro dignità di esseri umani, non mostri da cui fuggire.
Sono i lebbrosi stessi a produrre il loro cibo, coltivando i loro orti. Nello Shanti Nagar ho visto tanti fiori e piante; e due piscine, due laghetti rettangolari belli e limpidi: uno per allevare le anatre, l’altro un vivaio per le carpe e le tinche. Questi due ponds erano onnipresenti nei villaggi indiani, da millenni; servivano, diciamo, a fornire l’apporto proteico. Erano esattamente quelli che Gandhi avrebbe voluto per tutta l’India liberata: non una grande potenza, senza industrie moderne, ma piena di villaggi autosufficienti, ciascuno con le sue due piscine, i suoi telai e le sue capanne familiari – swadeshi, autosufficienza, autarchia a misura umana. Morto Gandhi, il progetto è stato abbandonato; realizzato veramente, non fu mai. Sopravvive solo grazie a Madre Teresa, nella Città della Pace. Era possibile. Lo è ancora e sempre. Madre Teresa ha dato a Gandhi ciò che a Gandhi mancava, ne ha completato l’opera.
Chi siete voi per giudicare, scemi di Montreal.
maurizioblondet.it
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