domenica 13 novembre 2016

Per arrivare al camaleontico Julio Cortàzar - Yuleisy Cruz Lezcano








Per arrivare al camaleontico Julio Cortàzar
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"Claro que me sería absolutamente imposible vivir si no pudiera jugar. Cuando digo jugar no me refiero a jugar con un trencito de juguete, sino a jugar en el sentido que el hombre juega. Si le da la gana de escuchar la música está jugando; si quiere hacer un paseo está jugando, ese es el sentido lúdico. Todo lo que significa el trabajo, la obligación y el deber. Todo lo que sale de eso para mí es el juego y el hombre es un animal que juega."
Julio Cortázar
“Certo che mi sarebbe impossibile vivere senza potere giocare. Quando dico giocare non mi riferisco a giocare con un trenino giocattolo, ma nel senso in cui l’uomo può giocare. Se ha voglia di ascoltare la musica sta giocando; se vuole fare una passeggiata sta giocando,  è quello il senso ludico. Tutto quello che significa lavoro, obbligazione e dovere non è giocare. Tutto ciò che esce da quello per me è un gioco e l’uomo è un animale che gioca.”
(Traduzione del testo Yuleisy Cruz Lezcano)
Julio Cotàzar (Julio Florencio Cortàzar Descotte- Bruxelles, 26 agosto 1914-Parigi, 12 febbraio 1984) è stato uno scrittore, poeta, critico letterario, saggista e drammaturgo argentino naturalizzato francese. E’ considerato fra i maggiori autori di lingua spagnola del XX secolo. Imparentato con Borges come cultore del racconto fantastico, i suoi racconti però, a differenza di quelli di Borges si sono allontanati dall’allegoria metafisica per indagare le faccende del quotidiano, cercando sempre il senso autentico e lo stile nell’esprimersi, lontano dalle credenze religiose e della routine. Julio Cortàzar ha sovvertito tutti i generi letterari, rendendo l’irreale plausibile e la realtà, uno spettro emblematico dell’irreale. Il suo nome si colloca allo stesso livello di altri grandi scrittori come: Garcìa Màrquez, Mario Vargas Llosa, Juan Rulfo, Carlos Fuentes, Jorge Luis Borges e lo scrittore cubano Josè Lezama Lima, con questo ultimo sostenne una fitta corrispondenza e spesso si incontrarono insieme, per un caffè, all’Avana, dove si sono conosciuti nel 1961. Cotàzar, infatti, mosso dall’entusiasmo, pubblicò en La Habanera, rivista Uniòn il suo saggio “Per arrivare a Lezama Lima”, ed è stata una delle migliori introduzioni scritte all’opera di uno scrittore cubano.
Julio Cortàzar è l’enchateur, figura senza tempo, uno scrittore veramente camaleontico sull’orlo dell’abisso psicologico di chi non conosce confini. E’ stato un enigmatico viaggiatore nella realtà labirintica della mente e nella dimensione dove esiste solo il permanere dello straniamento, fino all’inevitabile consapevolezza di non esserci del tutto dove esiste il vuoto e il nulla e l’anima si manifesta con meraviglia in un’esplosione di energia creativa, che trasforma il mondo, alimentandolo con la forza dei sogni.
Nella sua scrittura convergono i giochi di parole e di senso, l’ironia e l’autoironia. Cortàzar dà alla letteratura espressioni uniche, in una combinazione infinita. Per lui la memoria è un insieme di gallerie inesistenti. I personaggi escono dai quadri, tutto il pensato è un labirinto, dove ogni uomo immagina nel suo centro una via di uscita, contornata da un insieme di domande di vita.
Il suo modo di scrivere ha un marcato carattere sperimentale, le sue visioni e i suoi registri del reale escono da ogni schema plausibile, ma in un modo così naturale, umoristico e teatrale che fanno uscire il lettore da tutti i punti di vista convenzionali, richiamando la sua attenzione verso il completamento e la finitura dell’atto narrativo, come se ci fosse una storia dentro la storia, che ogni lettore crea a sua volta.
Nella sua opera si percepisce quel sentire umano relativo a ciò che si manifesta, ma a volte è un sentire in cui l’uomo è inesistente, perché si assenta dall’atto di consapevolezza della propria coscienza.
“Non esserci del tutto in una qualsiasi delle strutture, delle ragnatele che prepara la vita e in cui siamo alternativamente ragno e mosca”
I suoi racconti offrono la possibilità di fantasticare, proponendo diverse possibilità di partecipazione, questa possibilità si evidenzia molto bene nella sua novella dal titolo “Rayuela”, considerata una delle opere fondamentali della letteratura in lingua castigliana. “Rayuela” è racconto breve, dove  si percepisce l’impronta rivoluzionaria, innovatrice e irrepetibile che lo contraddistinguono.
Por lo demás hay que ser imbécil, hay que ser poeta, hay que estar en la luna de Valencia para perder más de cinco minutos con estas nostalgias perfectamente liquidables a corto plazo...
Rayuela (Capítulo 71) Julio Cortázar
Inoltre bisogna essere imbecille, bisogna essere poeta, bisogna essere nella luna di Valencia per perdere più di cinque minuti con queste nostalgie perfettamente eliminabili e a corto lazzo…
(traduzione Yuleisy Cruz Lezcano)
In alcuni racconti lo scrittore non fa altro che un’analisi di sé, si sente la sua essenza, la meraviglia per i dettagli, la commozione per il mondo che gli sta attorno. Si percepisce nella sua opera l’ombra nascosta dietro l’uomo, sul margine di una conversione definitiva alla presunta realtà.
Torno sull’opera “Rayuela” , una delle mie preferite, in cui Cortàzar con molta chiarezza  concede al lettore il suo significato di amare;  come se l’amore accadesse, non per scelta, ma per puro caso, a coloro che sanno emozionarsi e abbandonarsi con innocenza alle proprie emozioni.
“Lo que mucha gente llama amar consiste en elegir a una mujer y casarse con ella. La eligen, te lo juro, los he visto. Como si se pudiese elegir en el amor, como si no fuera un rayo que te parte los huesos y te deja estaqueado en la mitad del patio. Vos dirás que la eligen porque-la-aman, yo creo que es al verse. A Beatriz no se la elige, a Julieta no se la elige. Vos no elegís la lluvia que te va a calar hasta los huesos cuando salís de un concierto. Pero estoy solo en mi pieza, caigo en artilugios de escriba, las perras negras se vengan cómo pueden, me mordisquean desde abajo de la mesa.”
Fragmento del Capítulo 93 de Rayuela, Julio Cortázar
“Quello che tanta gente chiama amare consiste nel scegliere una donna e sposarsi con lei. La scelgono, ti giuro, l’ho vista. Come se si potesse scegliere l’amore, come se non fosse un raggio che ti taglia le ossa e ti lascia staccato a metà nel cortile. Voi direte che la scelgono perché la amano, io credo che sia da vedersi. Beatrice non si sceglie, Giulietta non si sceglie. Voi non riuscite a scegliere la pioggia che scende fino alle ossa quando salite da un concerto. Ma io sto solo nella mia parte, cado nei marchingegni che scrivo, le cagne arrivino come possono, mi morsicano da sotto il tavolo.”
Frammento del capitolo 93 di Rayuela, traduzione Yuleisy Cruz Lezcano.
Con la lettura dei racconti del grande maestro del fantastico dell‘ 900 Julio Cortàzar, le immagini offrono all’osservatore assente un frammento di vita sintetizzata, la fugacità del perenne e l’alchimia che dà origine a tutti i contrasti. L’opera di Cortàzar è profonda nella sua semplicità, ha una risonanza che si spiega da sé, da un punto di vista, il suo, molto affascinante, che dà la dimensione del sogno ma anche dell’incubo. La sua narrativa veicola un messaggio, dove l’uomo  richiama il lettore perché lo accompagni nel suo viaggio.
“Scrivo per deriva, per dislocamento, scrivo da un  interstizio”.
Nel suo mondo non domina solo il fantastico, ma anche la meraviglia, dove ogni storia si organizza da sé, senza regole, perché a volte l’uomo sceglie la storia, a volte la storia sceglie l’uomo.
Alcuni dei suoi racconti nascono dai sogni. Nei ricordi d’infanzia lo scrittore si vedeva scrivere col dito parole sul muro:
“Scrivevo parole e le vedevo prendere corpo nello spazio, parole che già da tempo erano parole magiche. Da quel momento ho incominciato a giocare con le parole, a slegarle sempre più dalla loro utilità pratica e iniziare a scoprire i palindromi.”
Sono da sempre affascinata da quest’uomo, dalla sua realtà labirintica e dal suo sentimento fantastico, dove si può veramente volare “oltre” perché lui ha saputo come esorcizzare ogni spiegazione, con un misticismo tale da indossare ogni volta nuova pelle per collegarsi a una realtà, che pur essendo a volte la stessa, può essere interpretata volta per volta in modo diverso.
La lettura di molti dei suoi racconti e poesie mi hanno portata a percepire in ogni sua frase degli elementi occulti, e nonostante, il generoso uso di dimensioni fantastiche e di creature mentali presenti nei suoi dialoghi e versi, colgo nella sua scrittura uno sguardo lucido che mantiene tutte le connessioni con la realtà.
Come lasciare fuori la poetica di Cortàzar? A seguito vi riporto una sua poesia.
UNA CARTA DE AMOR
Todo lo que de vos quisiera
es tan poco en el fondo

porque en el fondo es todo

como un perro que pasa, una colina,
esas cosas de nada, cotidianas,
espiga y cabellera y dos terrones,
el olor de tu cuerpo,
lo que decìs de cualquier cosa,
conmigo o contra mì,

todo eso que es tan poco
yYo lo quiero de vos porque te quiero.

Que mires màs allà de mì,
que me ames con violenta prescidencia
del mañana, que el grito
de tu entrega se estrelle
en la cara de un jefe de oficina,

y que el placer que juntos inventamos
sSea otro signo de la libertad.

Julio Cortàzar
UNA LETTERA D’AMORE
Tutto quello che di voi vorrei
è così poco in fondo

perché in fondo è tutto

come un cane che passa, una collina,
quelle cose da niente, quotidiane,
spiga e chioma e due zolle di zucchero,
l’odore del tuo corpo,
quello che dici di qualunque cosa,
con me o contro di me,

tutto quello è così poco
io lo voglio da voi perché vi amo.

Guarda più in là di me,
amami con violento attaccamento
del mattino, fa sì che l’urlo
del tuo concederti si schianti
contro il volto di un capo  ufficio,

e che il piacere che insieme abbiamo inventato
sia un altro segno di libertà.

A Cortàzar ho dedicato una lettera “Lettera da poeta a poeta”, con la quale ho partecipato al Concorso Letterario Internazionale “Lettere d’amore” XVI edizione, patrocinato dal Comune di Torrevecchia Teatina, e che vi allego a seguito, a dimostrazione della mia grande ammirazione per questo camaleontico scrittore e poeta, che amo da sempre.

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Lettera da poeta a poeta  (dedicata a Julio Cortàzar  di Yuleisy Cruz Lezcano)

Tu dici di essere idiota, ma se tu sapessi Julio Cortàzar, quanto sono idiota anch'io. C'è un mondo di idioti come noi. Siamo nati dalla vera fonte della mitologia degli idioti.
Siamo immaturi idioti e troviamo la nostra realtà, solo nello spirito dell'ingenuità primitiva.
E non credere che sia semplice la nostra vita, nessuno comprende la nostra sorpresa del frutto, nessuno capisce se per noi un’ora è uguale a un minuto, quando ci perdiamo nella contemplazione.
Noi siamo la celebrazione del culto degli idioti, abbiamo la malattia dell'entusiasmo, per le cose che gli altri nemmeno considerano.
Sorridiamo senza sforzo, senza contegno, indisturbati. Siamo gli idioti abbandonati nel gozzo di ogni cosa banale, persi nella fantasia di battute senza suono che solo a noi fanno ridere a crepacuore, come idioti.
L’idiozia è la nostra unica storia di follia, ridiamo davanti ai dipinti idioti, ci piacciono i ritornelli semplici, i ritmi ingenui, ci piace inventare i colori per tutte le nuove vocali, regolare la forma della bocca per tutte le consonanti e, con ritmi istintivi, illuderci di creare un linguaggio poetico, accessibile per esprimere l’inesprimibile, fissando la vertigine di un sorriso che descrive tutti i silenzi.
Siamo abituati alle allucinazioni semplici, vediamo chiaramente nelle nuvole tutte le favole, calessi per le strade del cielo, un salotto pieno di alberi sul fondo di un lago, mostri e misteri in tutti i boschi bui.
E poi crediamo pure di essere una voce, di nasconderci in forme animali e parlare con la natura, con il nostro gatto, con il nostro cane. Parliamo a loro assumendo delle espressioni quanto più buffe e smarrite possibili, così consapevoli di sapere che essere idioti è la nostra destinazione di felicità, pertanto davanti ad altri uomini conversiamo con l’erba ad alta voce, senza dimenticare i sofismi di follia che ci appartengono. Sappiamo molto sulla follia, essa non deve venire rinchiusa, e noi possediamo dei sistemi semplici per liberarla. Sappiamo come distrarre gli incantesimi accumulati nel cervello umano, diamo continuamente vita all’infanzia. Lo sappiamo, occorre davvero audacia e umiltà per avvicinare tutte le idiozie! Eppure siamo stati educati al rapporto con la gente, ma non troviamo i nostri grammi di ragione per passare inosservati, quando, con atteggiamenti che in tanti ritengono sbagliati, sogniamo in piedi.
Ah! Ah! Ah! Se tu sapessi quante ne combino… questa te la devo proprio raccontare: volevo portare fuori il cane, l’ho chiamato, ma lui già mi aspettava sulla porta, seduto  scodinzolava, guardandomi con i suoi grandi occhi tondi, poi ho indossato la giacca, ho preso il guinzaglio, mi sono messa la sciarpa e sono uscita, ma il cane era rimasto dentro ed io mi sono stupita di quanto leggero fosse il mio cane, quando per la strada giravo con il guinzaglio, senza rendermi conto di averlo lasciato dentro casa. Non ti dico che reazione. Ah! Ah! Ah! ho riso e riso di me stessa, quasi da farmi la pipì addosso, come solo sanno fare gli idioti.
Ah! Felici! Sì, solo gli idioti sono felici, quelli come noi, credono alla felicità e si affacciano a magiche finestre, sempre deliranti, con la psiche offuscata da occhi sognanti, e pensieri erranti in foreste spensierate. Quasi disgiunti dalla ragione, siamo persi in regioni inesplorate dall’attenzione, perché per noi essere idioti è l’unica condizione che ci mantiene vivi.
Non sembriamo di questo mondo, possiamo essere la nuvola, l’albero, ci basta, da semplici, la semplicità per creare una concreta estensione all’interno del cuore e dilatarlo con poche gocce di sole, perché per noi l’immaginazione è un esercizio.
Siamo sin dall’inizio gli idioti resi puri dal battesimo, liberi dalla ragione e dal suo linguaggio, siamo come pagliacci che dopo un travagliato viaggio ridono e ridono, creando confusione.
Come tutti, abbiamo sentito una gran liberazione cadendo dalla vulva materna, ma già da neonati, nel momento che siamo stati cullati, abbiamo riso e riso, senza nessuna ragione, con il cuore pieno di gioia, sbavando e poppando con innocenza, sognando a occhi aperti, come idioti.
Che dire! So bene cosa farmene delle nuvole grigie, da bambina la prima volta che ho guardato il cielo, ho avuto coscienza che in tutto c’è un’immagine, che nessuna realtà è legata alla sua propria realtà e che da una nuvola a un’altra nuvola c’è solo una piccola misura di cielo, e il cielo intero è una grande vetrina di contenuti, che può costruire continuamente delle immagini per l’uomo ispirato. Sul cielo da bambina ho sognato l’amore e ho visto tanti istanti di luce esplosi nella notte, mentre guardavo le stelle. Sentivo pulsare l’universo con astri che mi accarezzavano la pelle e ho imparato a distinguere una stella dall’altra, attraverso la chiarezza delle loro rivelazioni. E non dirmi, carissimo amico, che erano spazi di confusione, perché i confusi sono assenti al loro presente, invece io ho sempre saputo che la mente non ha confini. Tutto è nello stesso istante “uno e diviso”, e io ora con il mio migliore sorriso ti dico, con certezza, che per sognare bisogna amare il proprio sogno e tu, come me, lo sai. So bene che anche tu, come me, hai imparato a scorgere il fuoco e il profumo dell’aurora; hai imparato che il sogno è il minuscolo anticipo di tutte le pagine da vivere; hai imparato ad amare la bellezza di un mondo che si apre in altri mondi e hai capito che la razza degli idioti è tenace, perché gli idioti immaginano l’infanzia come una terra bagnata dall’acqua. Gli idioti sanno bene che i sorrisi sono fatti da piccole avventure che galleggiano in barchette di carta.
So di parlarti in una lingua che già conosci, so che mi immaginerai e sorriderai quando leggerai queste righe, perché anch’io sto sorridendo mentre immagino che tu le leggi. Solo gli idioti possono ridere immaginando quello che ancora non è successo. La fraternità fra gli idioti non consiste nel mettersi nella pelle di un altro idiota, ma nel sapere ridere di sé, insieme agli altri.
Con affetto
  1. C.L.



sabato 12 novembre 2016

Shakespeare, la prima raffigurazione pittorica dell'Amleto a Lucca


 

AMLETO A LUCCA: LA PRIMA RAFFIGURAZIONE PITTORICA DI SHAKESPEARE

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AMLETO A LUCCA - L'OPERA di DOMENICO BRUGIERI
È un dipinto di inizio Settecento del pittore lucchese Domenico Brugieri la prima raffigurazione pittorica dell’Amleto di Shakespeare. Questa scoperta, destinata ad alimentare una dibattito fra studiosi in ambito mondiale, è al centro della mattinata di studi in programma sabato 12 novembre, alle 10.30, nella Cappella Guinigi del Complesso Conventuale di San Francesco, a Lucca. Al termine dell’incontro, intorno alle 12.30, nella chiesa di San Franceschetto, sempre nel medesimo Complesso, verrà inaugurata la mostra Amleto a Lucca.
L’iniziativa, che è organizzata dal Comitato Nuovi Eventi e sostenuta dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Lucca, si avvale del patrocinio del British Council, e nasce da un’idea di Marco Paoli. Il noto studioso lucchese ha infatti individuato in un’opera di Domenico Brugieri – che fu tra i primi maestri di Pompeo Batoni - la prima testimonianza pittorica di una scena tratta dall’Amleto di Shakespeare e in particolare del tragico epilogo, con Gertrude che beve dalla coppa avvelenata e si rivolge affettuosamente al figlio, Amleto, pronto ad affrontare lo zio Claudio costringendolo a bere il residuo veleno della coppa. Un’interpretazione sostenuta da varie testimonianze documentarie.
Ma è la collocazione cronologica dell’opera, l’anno 1722, a suggerire un interessante parallelo. Il 21 settembre di quell'anno, infatti, Giacomo III Stuart, pretendente al trono inglese in esilio a Roma, si trovava in visita a Lucca – all’epoca una libera repubblica – dove avrebbe potuto far stampare un proclama rivolto ai sudditi di Inghilterra, Scozia e Irlanda.
Si può quindi ipotizzare che il dipinto nasconda un riferimento allegorico alle vicende di Giacomo III, anche lui come Amleto sovrano ingiustamente escluso dal trono. Un’allegoria pittorica commissionata a Brugieri proprio in occasione della visita a Lucca del pretendente inglese.
L’ipotesi sostenuta da Marco Paoli assume un fascino particolare proprio perché, fino ad oggi, non risulta esserci alcuna testimonianza della conoscenza delle opere shakespeariane in Italia prima della fine del XVIII secolo.
Di questa intrigante ipotesi discuteranno, in Cappella Guinigi, oltre allo stesso Paoli, il Professor Renzo Sabbatini, docente di Storia moderna all’Università di Siena (“Gli Stuart a Lucca, una visita politicamente imbarazzante”) e la storica dell’arte Paola Betti (“Temi storici e messaggi politici nell’arte lucchese tra Sei e Settecento”).
La mostra resterà aperta fino al 20 novembre nella chiesa di San Franceschetto con i seguenti orari: 12 novembre: ore 15-19; 13 novembre: ore 10-13 / 15-19; dal 14 al 18 novembre compresi: ore 15-19; 19 e 20 novembre: ore 10-13 / 15-19.

L'era dell'apparenza: apparire o scegliere di essere? - Antonella Gramigna


Di Antonella Gramigna*

"Tutto il mondo è un palcoscenico e gli uomini sono soltanto degli attori che hanno le loro uscite e le loro entrate. E ognuno, nel tempo che gli è dato recita molte parti". (William Shakespeare)

Apparire, in questo tempo, ha una valenza maggiore dell'essere: la moda dei tatuaggi,che imperversa da diversi anni nelle ultime generazioni, ne è un esempio eclatante. L'immagine è la prima cosa che si "spende" nel contattare l'altro. Essere è l'identità della persona, la sua intima natura, ciò che si è; apparire è il mettersi in vista, avere l'apparenza, sembrare ma anche mostrarsi. Attraverso l'essere esprimiamo la nostra identità, un modo di vivere personale e necessario, la nostra unicità, il nostro contenuto, ma vivendo di relazioni anche l'apparire diventa una manifestazione necessaria. Viviamo quindi in una società in cui conta più l'apparire rispetto all'essere o meglio dove l'essere coincide con l'apparire?
La nostra è una società che fa riferimento ad immagini-idolo, una cultura fatta di modelli ed icone generati dal mondo della pubblicità, dello sport, dello spettacolo, della televisione, un mondo "preconfezionato" in cui esistono regole e format che ti inquadrano in un target o in un'altro. Perché, secondo voi, l'apparire è così importante in questa società? Perché è l'emblema di uno status, derivante da molta solitudine. Apparendo come o meglio di altri forse ci sentiamo meno soli, o credendosi migliori ci illudiamo e ci costruiamo una maschera in cui crediamo veramente. Ma alla fine la vita presenta il conto mettendoci in condizioni di riflettere e capire come effettivamente andrebbe vissuta.
Apparire significa mostrarsi agli altri e, dunque, essere accettati, ammessi, legittimati al bisogno d'amore. Così inizia quel lungo e doloroso percorso che conduce al travestimento per la recita di un copione. Inseriti in un determinato contesto, ci assegniamo una maschera, obbligandoci a muoverci secondo schemi ben definiti che accettiamo per convenienza senza avere mai il coraggio di rifiutarli, anche quando contrastano con la nostra natura. Sotto la maschera il nostro spirito freme, ma lo freniamo per non urtare contro i pregiudizi della società, o per la nostra tranquillità. Ma a volte capita che l'anima istintiva esploda facendo saltare ogni pudore o freno inibitorio. Allora la maschera si spezza e siamo come un violino stonato, come un attore che si mette a recitare sulla scena una parte del copione che non gli è stata assegnata.

I fenomeni, o meglio dire, le patologie legate ai disturbi alimentari sono legati anche a questo ambito. Spesso sono il campanello di allarme di un disagio legato al  " non sentirsi accettati". Potremmo definire tutto ciò come malattia sociale? Certamente si. L'uomo è un essere sociale, ha bisogno di essere accettato, amato e stimato, l'inversione di tendenza può essere attuata con il riscoprire tutto questo ed accettarlo. Chi ha tutto, ma non è, può perdere, in un solo istante, tutto ciò che ha. Chi è, ma non ha niente, può avere tutto ciò che vuole. Il vero potere dell'uomo è nell'essere non nell'apparire. Valgo perché sono, non perché appaio.
La via della guarigione inizia proprio da qui, dall'amore per se stessi e da una maggiore consapevolezza del proprio Se. Ricordiamoci sempre che nessuno può veramente amare qualcuno se prima di tutto non ama se stesso e permette di venir calpestato nella sua essenza, quella intima e vera che risiede nella propria anima.

 * Esperta in comunicazione, promozione e orientamento alla salute

Essere e apparire, reale e immaginario, virtuale ...REGINA RESTA







Essere e apparire, reale e immaginario, virtuale, cioè io e Regina
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Io sono io, adesso, e questo è indubbio, inequivocabile, mentre penso e scrivo digitando lettere, punti, numeri su questa tastiera nera del pc, ed io Regina, blogger, scrittrice, pensatrice, poetessa e quant’altro sia ciò che appare a voi, come frutto di quel che trascrivo di me, dei miei pensieri e delle cose che faccio in questo mondo infinito del web
Fra me e voi uno spazio immenso e sconfinato che io chiamo: “immaginazione”, chiaramente la vostra!!!
 Cosa ne scaturisce?
Anche questo è prevedibile e ovvio, l’idealizzazione di una persona, la costruzione che ne fa la nostra e vostra mente, ricostruendo in modo univoco e diverso per ognuno di voi, un’immagine riflessa, che segue la percezione mentale di ognuno.
Ma io e il pc, o meglio, io e le cose che scrivo, non siamo la stessa persona…!!!
Per carità…non fraintendetemi, non c’è finzione, né un’interpretazione teatrale, anche se a volte ci si trasforma in istrioni, ma quante volte mi sono chiesta se le persone che mi conoscono nella realtà mi riconoscerebbero attraverso quello che scrivo sul web?
Nella vita reale, il numero di persone che mi legge è irrisorio, e perciò non credo mi riconoscerebbero, la blogger non sono io, ne sono solo la sua creatrice…tra noi due c’è una differenza, più o meno sottile…
Chi sono…chi siamo allora? Siamo ciò che appariamo agli altri nella vita di tutti i giorni o quello che vorremo essere e che magari qui riusciamo ad essere almeno un po’?
Siamo la nostra quotidianità nuda e cruda o siamo i nostri sogni che qui abbiamo il coraggio di rivelare?
Siamo ciò che c’è fuori, ciò che gli altri vedono o siamo ciò che abbiamo dentro e che magari solo qui mostriamo? Sì, perché molti dietro a un monitor diventano leoni, capaci di spararla grossa e di apparire più che essere.
Ma come convincere gli altri di come siamo veramente, se i nostri rapporti, oggi, sono più  virtuali che reali e allora perché alcuni incontri poi quando diventano reali si frantumano e si trasformano in nemici per la pelle, con odio, cattiveria e attacchi?

This is the question,
e con questi dubbi amletici vi saluto e intanto pensateci…pensiamoci.
Regina Resta




Ci sono parole ... REGINA RESTA






Ci sono parole che non si dimenticano mai
sono scolpite nell’anima
come solchi nella terra arida
senza germogli del divenire
con spine acuminate
attorniate da vuoti di follie
inconsapevoli dei loro disincanti.
Quante volte ho cercato
di farmi trascinare dal vortice di un ciclone
attorcigliata da spirali di percezioni del nulla
dove il niente è sovrano
e i desideri delle cose perse
trascinano giù nell’abisso.
Posso camminare a piedi scalzi ancora
senza timore di farmi male
o di restare ustionata da carboni roventi,
camminerò per ritornare un’altra volta ad amare
fino a scoppiare senza rimorsi.
 ©Regina Resta 2016