domenica 13 agosto 2017

LUCI E OMBRE NEI PLEBISCITI di Mario Setta





LUCI E OMBRE NEI PLEBISCITI
Il libro di Enzo Fimiani, una novità nella ricerca storica

di Mario Setta *

“La storia è divertente” è l’affermazione di un grande storico, fucilato il 16 giugno 1944. Marc Bloc, ebreo. Ma afferma anche che un “bravo storico” deve comprendere e non giudicare, perché “il diabolico nemico della storia vera e propria è la mania del giudizio”. Ci sono libri che si leggono e libri che si studiano. Questo è un libro in cui “lo storico analizza”, per restare nel linguaggio di Bloc. E analizza con una acribia che non scoraggia, ma incanta, dal momento che un quarto del libro è affidato alle note e ai i riferimenti bibliografici. Non è solo un libro “divertente”, perché la storia sarebbe divertente, ma anche un libro enigmatico fin dal titolo, virgolettato, che non può non richiamare un detto storico: «L’unanimità più uno».

“Locuzione all’apparenza paradossale”, viene ritenuta dall’autore, ma posta come titolo del libro sollecita la curiosità e l’interesse, ricercandone il senso profondo. Una frase, di cui si svela l’autore verso la fine del libro e se ne dibatte forma e sostanza, sintetizzando e focalizzando così la tematica di “plebisciti e potere”, il sottotitolo del libro. Il plebiscito come idea e come storia è il “fil rouge” del libro. Un filo di Arianna che attraversa la storia di due secoli dell’Europa, dal 1789 ad oggi. Già dal primo capitolo, Enzo Fimiani dichiara che la sua è “una proposta inedita nel panorama editoriale non solo italiano, ma anche europeo, primo esperimento di ricostruire tutta intera […] la storia dell’istituto del plebiscito” e spera sia utile “non solo ai cosiddetti specialisti, bensì anche ai cittadini più o meno colti, specie giovani studenti”.

Interessante e in qualche modo avvincente il linguaggio, sempre scorrevole e spontaneo, come l’uso, di tanto in tanto, dell’aggettivo “scivoloso”, per indicare che i plebisciti nascono con l’idea di migliorare le condizioni del popolo, di servirlo, mentre poi lo asserviscono e lo schiavizzano. È notorio che la tematica risale, teoricamente, al periodo dell’illuminismo, tanto che Voltaire, in una lettera del 1776 scrive: “sont les plébiscites qui font les lois”. Ma la pratica trova la sua espressione nel periodo della Rivoluzione Francese. Certamente il giuramento nella sala della Pallacorda, il 20 giugno 1789, con cui i rappresentanti degli Stati Generali si autoproclamano assemblea nazionale, rappresenta una data imprescindibile nella storia umana. Riconoscendo la propria maggioranza numerica, 578 (borghesia) contro 561 (nobiltà e clero), il terzo stato assume il ruolo di volano. Il 9 luglio nasce l’Assemblea nazionale costituente. Una rivoluzione che si compie, senza spargimento di sangue. Il 26 agosto 1789 viene approvata e pubblicata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Inizia un decennio in cui il sangue sgorga da ogni parte, fino al colpo di stato di Napoleone, il 18 brumaio 1799 (9 novembre).

Sul fil rouge, Fimiani rileva una doppia tipologia della dimensione plebiscitaria e ciascuna, a sua volta, doppia, una specie di Giano bifronte, di teoria e prassi. La prima tipologia è data dal rapporto dialettico tra Potere e Popolo, la seconda tra Diritto e Suffragio. E sempre sul fil rouge ci conduce attraverso le varie tappe delle consultazioni, cominciando dalla prima, che avviene nel 1793 per approvare la Costituzione Repubblicana giacobina. I risultati vengono proclamati il 20 agosto e assegnano il 99% ai Sì (Oui). La Costituzione dell’anno III, approvata il 22 agosto 1795, viene sottoposta al plebiscito e il risultato viene proclamato il 23 settembre. Non ci fu grande partecipazione e il ricorso al plebiscito assume la funzione di appello al popolo (appel au peuple). Intanto nel panorama franco-europeo appare la figura di Napoleone Bonaparte, in precedenza arrestato come giacobino, ma personaggio di rilievo per le sue vittoriose battaglie nella campagna d’Italia. E proprio in Italia il plebiscito assume valore di riscatto nazionale. In otto anni, per nove volte, tra i confini di piccoli stati, gli italiani esprimono la loro volontà. In Francia, sotto Napoleone, l’“appel au Peuple” diventa una prassi normale e lo è anche quando appare il nipote del primo, Napoleone III.  Criticando l’appello al popolo di Napoleone III, Alexis de Tocqueville scrive: “Mai a una nazione fu offerta più odiosa derisione”.

“In Italia, tra il 1859 e il 1870, - si legge nel testo di Fimiani, - si recò nei seggi a votare un totale di quasi tre milioni e ottocentomila italiani, abitanti (maschi) degli Stati preunitari. Nell’insieme dei ben diciannove plebisciti risorgimentali tra 1848 e 1870, il totale dei votanti ascese a 4.600.000. Quella massa di italiani ‘plebiscitanti’ in stragrande maggioranza, non avrebbe mai più messo piede in un seggio elettorale lungo tutta la propria vita restante”. Nel Novecento il ricorso ai plebisciti non si attenua. In Francia, Italia, Germania, Spagna, Grecia, e altre nazioni europee il plebiscito assume importanza capitale a livello politico-elettorale. Sotto il fascismo il primo plebiscito avviene nel 1929, il 24 marzo, alla scadenza della prima legislatura, con i Sì che raggiunsero il 98.33%. Il successivo plebiscito ebbe luogo dopo 5 anni precisi, il 25 marzo 1934, con un risultato del 99,84% di Sì.  In Germania, l’anno prima, il 1933, “le votazioni del 5 marzo - scrive Fimiani -  apparvero dotate di chiari connotati da plebiscito”. Ed è in Germania che viene approvata una legge ad hoc sul plebiscito (“Gesetz über Volksabstimmung”). All’ultimo capitolo del libro, “Le interpretazioni”, l’autore cerca di puntualizzare le ragioni del lavoro svolto, sottolineando il concetto originario del plebiscito “un portato, non lo si dimentichi, dell’allargamento della sfera politica e, in sostanza, di una sua ‘democratizzazione’”.

A conclusione di questa mia recensione un po’ sbrigativa, ma “amichevole”, per il fatto che sono amico da anni dell’autore e di cui apprezzo lo sforzo che investe sul suo lavoro, cerco di soffermarmi sulla frase del titolo del libro: “L’unanimità più uno”, pronunciata il 12 maggio 1928  in Senato da Benito Mussolini. Probabilmente pensava a se stesso, il duce, come componente aggiuntiva, extra-ordinaria, in una votazione plebiscitaria. L’idea di Unità del e nel popolo ha molto di religioso, di mistico. Era l’idea spinoziana di Deus sive Natura, coinvolgendo sacro e profano, Ne “L’avvenire dell’uomo”, un paleontologo-teologo che scrive in quegli anni, Teilhard de Chardin, affronta temi di carattere teorico-cosmico, scrivendo: «Nei sistemi “totalitari”, dei quali l’avvenire correggerà certamente gli eccessi, accentuandone probabilmente le tendenze e le intuizioni profonde, il cittadino vede il suo centro di gravità trasferito a poco a poco, o per lo meno imperniato, su quello del gruppo nazionale o etnico a cui appartiene. […] Siamo tutti d’accordo sul fatto che la nostra specie sta entrando nella sua fase di socializzazione; non possiamo continuare a vivere senza subire quella trasformazione che, in qualche modo, renderà la nostra molteplicità un tutto.»

*Storico



Salvare l’Africa con l’Africa, non con il buonismo ideologico



Salvare l’Africa con l’Africa, non con il buonismo ideologico
Pubblicato 12 agosto 2017 |
Da Francesco Agnoli
Di ritorno dalle vacanze, apro la cassetta della posta e trovo una serie di riviste cui sono abbonato, o che mi inviano gratuitamente: Etiopia chiama; Aiuto alla Chiesa che soffre; Medicina & Missioni.
Si occupano tutte di Africa e di Terzo Mondo ed invitano ad adottare bambini a distanza, a finanziare la ricostruzione di chiese e ospedali distrutti in Egitto, Iraq, Medio Oriente, oppure, come l’ultima citata, raccontano la vita dei medici che prestano lavoro gratuito in paesi in via di sviluppo.
Questo perchè il mondo cattolico ha a cuore i poveri, anche lontani. La missione è sempre stata questo: annuncio della Buona Novella, ed aiuto allo sviluppo, in tutti i sensi. A casa loro. Lì dove i popoli vivono, dove hanno le proprie radici, adeguandosi per quanto possibile ad usi e costumi locali, almeno a quelli non in contraddizione con lo spirito evangelico.
Nei secoli i missionari hanno sradicato, dove sono riusciti,
usanze inique legate alle religioni tribali: il ricorso abituale della vendetta; i sacrifici umani; la magia e la stregoneria; la poligamia…
Ma non hanno mai ritenuto di dover imporre lingua, usi e costumi occidentali, convintissimi che se il buon Dio ha permesso l’esistenza di popoli, lingue, culture diverse, c’è in questo una ricchezza insostituibile.
Ricordo, quando ero piccolo, un frate francescano trentino che raccoglieva l’elemosina per portare soldi in Etiopia. Girava con il bastone, i sandali e la bisaccia; il suo volto emaciato, i suoi occhi dolci e mansueti parlavano della sua profonda Carità.
I miei genitori ci insegnavano a saltare qualche volta il gelato, a fare qualche fioretto: i soldi risparmiati, ci dicevano, li diamo al frate, e aiutiamo un bambino povero, a casa sua.
Da grande mi sono trovato ad avere amici che hanno adottato dei bambini, sempre in Etiopia. Mi hanno raccontato che per ogni bambino concesso in adozione, e quindi destinato a lasciare il suo paese, il governo etiope chiede alle associazioni di carità un certo numero di adozioni a distanza. Questo perchè un paese non può privarsi dei suoi giovani: sono il suo futuro. Spinto da questi amici, per alcuni anni ho invitato i miei alunni a rinunciare a qualcosa, per adottare a distanza un bambino etiope. Per dargli un futuro migliore nella sua terra, vicino ai suoi cari, là dove dovrà un giorno essere protagonista della vita della sua comunità.
E dunque? Dunque viene da sorridere a sentire Matteo Renzi che declama: “Aiutiamoli a casa loro”. Lo dice adesso, con un po’ di ritardo, dopo aver detto il contrario per molto tempo, senza risultare credibile. L’uomo è così: rende stupide e intollerabili anche le frasi intelligenti. Saranno il tono, la mimica, la fiducia che ispira in chi lo ascolta quando parla.
Però, sì, “aiutiamoli a casa loro” non solo è un concetto intelligente, ma è anche molto cristiano. Molto rispettoso della varietà e della ricchezza del mondo, delle culture, delle patrie.
Proverò a dirlo con altre parole. Quelle utilizzate dall’uomo che più di tutti ha fatto per l’Africa, portandovi Vangelo, scuole, ospedali, università e molto altro: san Daniele Comboni.
Lui aveva un motto preciso, ricordato recentemente anche dal cardinale africano Robert Sarah: “salvare l’Africa con l’Africa“.
Lo espresse nel suo celebre “Piano per la rigenerazione dell’Africa con l’Africa“, presentato nel 1864 al Prefetto di Propaganda Fide, il Cardinale Alessandro Barnabò. In esso invitava tra l’altro a istituire “scuole per formare maestri neri, scuole per artisti, virtuosi e abili agricoltori, medici, infermieri, falegnami”; invitava a costruire dove possibile “piccole università teologiche e scientifiche” per creare una classe dirigente africana formata nel campo “religioso, civile, economico”.
Ma Comboni era un missionario vero, pronto ad affrontare interminabili viaggi, fiere, predoni, malattie… non un opinionista dell’accoglienza con la tastiera, nè una tonaca ideologizzata, nè un loquace politico toscano attaccato ai social come ad un respiratore, nel disperato intento di captare l’umore degli elettori.
La verità, 6 agosto 2017 e La Voce del Trentino
libertaepersona.org

venerdì 11 agosto 2017

SE LE LACRIME DI ALEPPO ARRIVANO A VICENZA - Roberto Rossi





SE  LE  LACRIME  DI ALEPPO ARRIVANO A VICENZA

"Signore, la prego mi aiuti", con queste parole questa mattina (10-agosto 2017) mi fermò un signore con voce bassa e grande dignità. Ho notato una fierezza umana segnata dalla tragedia. "Cerchi soldi?" Gli chiesi. "Vengo da Aleppo. Conosci Aleppo?" "Sì, da giornali, TV, una tragedia" gli risposi. "Aiutami per favore, entro stasera devo trovare i soldi per biglietto di treno e andare in Germania". Mi disse che questa era la sua priorità, che ad Aleppo sua moglie incinta era morta sotto i bombardamenti di Assad. "Che Dio lo maledica in eterno" disse. "No - gli risposi io - Dio non centra. Sono solo gli uomini la causa di tutto questo. Solo loro". Mi prese le mani e mi disse "Hai ragione...sono gli uomini". E così raccontandomi della sua famiglia distrutta, e rimasto con un figlio piccolo, i suoi occhi si riempirono di lacrime. Mi fece grande pena perché non potevo e non avrei potuto aiutarlo. Ci spostammo all'ombra, perché il sole era piuttosto caldo. "Sono andato alla Caritas, ma lì danno vestiti, cibo e niente soldi". Penso "Lo so...purtroppo".
"Aiutami per favore se non trovo questi soldi per biglietto stasera non posso raggiungere una zia in Germania che mi ha assicurato lavoro. Qui in Italia non va bene per niente. Avevo un lavoro ero dentista, avevo una casa, una moglie, avevo soldi. Tutto perduto. Non è vita questa. Aiutami signore".
Ben cosciente che non potevo aiutarlo gli diedi pochi spiccioli sentendomi un "verme", ma non avevo altro, ma anche ben cosciente della realtà. Mi racconta dove dorme, in una precaria tenda sotto alberi vicino alla stazione..."Ci sono ubriachi, gente cattiva, lì. Ti sembra vita questa?"
Ero lì che pensavo a chi rivolgermi e glielo dissi. "Mi prese di nuovo le mani, un gesto di grande dignità, di vicinanza, di umiltà. "Per favore aiutami, poi quando sarò in Germania appena potrò ti farò avere tutto, dimmi il tuo nome e cognome e ti sarò grato tutta la vita. Ho studiato la lingua italiana". Lo guardavo in volto e la sua dignità di persona corretta e grandemente sfortunata mi commuoveva, ma nulla potevo fare. Questa era la realtà.
"Se non riesco andare in Germania mi ammazzo! Cerco un ponte alto e mi ammazzo".
"Ma hai un figlio, non puoi dire così!" E mimando un abbraccio disse "Lo abbraccio e mi ammazzo. Che vita è questa se perdi tutto?"
"Comprendo la tua situazione ma non devi dire così, devi avere coraggio (parole, solo parole, le mie)".
Mi abbraccia e..."Grazie lo stesso. Ciao" e si incammina per la sua strada. Ed io con un magone immenso riprendo la mia. Come si fa ad affrontare situazioni simili? Quante di queste realtà ci sono attorno? Realtà già vissute da noi italiani non molti decenni fa, ma dimenticato tutto. Si può e si deve essere solidali, ma il cittadino può far poco individualmente. Ma basterebbe poco, basterebbe vedere persone sofferenti e non qualcosa altro di ostile. Mentre qui in Italia c'è la gara di chi è più indifferente, razzista, xenofobo, sparando falsità e rimanendo dentro il proprio recinto mentale fatto di odio e indifferenza o l'incapacità tra le istituzioni ad una accoglienza vera e lungimirante. Mentre scrivo questo fatto il magone è sempre qui e il pensiero a quella persona, umile o meglio schiacciata dagli eventi che l'hanno travolto è indelebile. Che strada avrà davanti a sé? Che strada hanno chi fugge dagli orrori causati dagli umani???

Testo di Roberto Rossi
Pittore, poeta, scrittore


mercoledì 9 agosto 2017

La missione di Goffredo Palmerini è centrale e maestra - Franco Ricci







La missione di Goffredo Palmerini è centrale e maestra
Dando voce a chi non l'aveva, fa capire a tutti che esiste un fitto arazzo di personaggi e situazioni,
di comunità ed eventi che varcano i confini di quell’Italia brava gente rimasta a giocare in casa.

di Franco Ricci *


Conosco Goffredo Palmerini ormai da qualche anno, da quando nel 2001 accompagnò il Coro della Portella in una tournée in Canada. Ancora non si era imbarcato nella sua nuova carriera di ambasciatore abruzzese, girovagante straordinario. Ma i semi erano già tutti presenti. Uomo temperante, signorile ed elegante come la città che ama e difende, le cui qualità e valenze diffonde e simultaneamente riscopre all'estero. Sicuro e deciso, rappresenta quell'indole abruzzese di gentilezza d'animo, fede nel prossimo, fierezza di pensiero e forza nel lavoro, che poi rivela e valorizza nei tanti meravigliosi ed appassionati scritti su personaggi, eventi, notizie, comunità ed associazioni, raccolti nel suo ultimo libro L’Italia nel cuore.
 

La stessa versatilità ed apertura verso le opinioni altrui che formano la sua indole, lo accomunano ai personaggi che scopre sparsi nel mondo, anche loro come lui avventurosi di spirito, ma regolati da un barometro decisamente abruzzese. E quindi moralmente sani e senza paure, operosi e ingegnosi, quelle stesse qualità che distinguono tutti gli abruzzesi, confermate nelle tracce e nelle impronte che lasciano gli emigranti abruzzesi nel mondo. Un popolo asciutto, solidale, forgiato dai tanti frequenti terremoti che nei secoli hanno segnato terribilmente la nostra gente ed hanno lasciato un’indelebile cicatrice sulla sua fisionomia rendendolo coraggioso, scaltro, preparato alle insidie e un pizzico fatalista. Tutte qualità - vi posso assicurare - che ben servono all'emigrante e che peraltro, nelle condizioni più difficili, lo aiutano alla sopravvivenza.

Ancor oggi, qui all’Aquila, come nelle comunità abruzzesi altrove, dopo settimane e mesi che sono diventati anni, questo carattere temperante ben serve a mantenere quella compostezza e dignità che tanto colpì i commentatori della sciagura del non troppo lontano 6 aprile.  Non c'è da stupirsi, quindi, se gli abruzzesi nel mondo abbiano fatto tanta strada nei campi più disparati, come testimonia Goffredo ancora una volta nel suo ultimo libro L’Italia nel cuore. Non poteva essere altrimenti.

Il libro di Goffredo Palmerini accavalla il tempo, anzi accorcia lo spazio e il tempo tra le comunità abruzzesi sparse nel mondo, concentrandosi e soffermandosi, secondo lo stesso Goffredo, su sensazioni, emozioni, racconti di vita, rendendole straordinariamente simili nella loro più svariata eterogeneità. Sono racconti in cui le divergenze del campanile scompaiano e tutti gli emigranti italiani si sentono un po’ abruzzesi, ricomposti nel loro essere dimezzati canadesi o americani o tedeschi argentini australiani, per sentirsi interi.

Palmerini dà voce a questa solidarietà insigne, dà voce a chi non l'aveva prima, a un settore vitale disagiato in primis perché si trova lontano da casa, poi perché la casa che si è costruita con interminabili lotte, con sacrifici, con lavoro e pianto, non è, in ultima analisi, veramente casa sua, e infine perché, nonostante le sembianze del successo, l'emigrante all’estero vive costantemente il trauma odierno d’una nostalgia irrefrenabile per ciò che forse non ha mai conosciuto e che probabilmente non esiste più.

Leggo Goffredo Palmerini come una Bibbia di questi itineranti, un promemoria di esodo e diaspora che rivela agli italiani in Italia una realtà migratoria per troppo tempo insaputa e che si trova sparsa sui cinque continenti. Si parla spesso, oggi, delle nuove generazioni, soprattutto quella terza generazione di giovani che, a differenza della seconda generazione spesso restia ad accettare usanze e costumi dei genitori, cerca le proprie radici in un gioco di specchi al rovescio, cercando di annusarne le essenze della propria identità. Da Manhattan a Washington, da Buenos Aires al Belgio, da Boston a Palermo, un rosario di motivazioni che puntano in pluri-direzioni ma che mirano un solo obiettivo: sentirsi abruzzesi.

Io pure, perenne giocatore in trasferta, sono - lo confesso - diffidente e, nonostante le mie moderate speranze, non nego che non credo, non riesco cioè a constatare un interesse crescente nella valorizzazione della cifra italiana, delle nostre comunità all’estero. E ciò nonostante i miei anni passati in mezzo a tanti giovani, sia negli Stati Uniti che in Canada, in congressi organizzati anche da me proprio per loro. Tutti pronti e decisi certamente a vivere la bella vita italiana, ma poco inclini ad escutere e approfondire le dure verità dell'emigrazione, le sofferenze dei propri avi, il casolare d’eredità spesso abbandonato e con il portone fracido.
     
Nascono così organizzazioni ed enti ispirati politicamente, mirati a rilanciare - badate il termine “rilanciare”, cioè tornare al passato per riabilitarlo - quello spettro dell'associazionismo, fenomeno ormai decisamente superato. Oppure si cerca di capire i problemi degli emigranti, a prescindere dei loro pregi, tentando così di stilare programmi di iniziative spesso a scapito dei beneficiari. Si è voluto infine dar origine ad un ruolo politico per gli emigranti, in seno alla politica nazionale italiana, con tutti gli irrilevanti e improvvidi retroscena partitocratici che danneggiano gravemente l'ingente patrimonio delle generose comunità degli emigranti, creando divisioni e rancori. Certi enti di rappresentanza spesso non sono altro che il sipario per persone con ambizioni politiche, i cui interessi s’impaludano in riunioni, negli ultimi vent’anni sempre sullo stesso argomento.

Io, per esempio - forse un inadeguato ma provocatorio esempio - da un giorno all'altro, di punto in bianco, sono passato da figlio di emigranti nato all'estero ad essere un italiano nel mondo per pura motivazione politica di Roma e a scapito di qualsiasi desiderio - mio o d’altri come me - avessi sognato. Tutto ciò con l'unico scopo di creare ambasciatori per l’imprenditoria italiana, per il nuovo marchio Made in Italy. Ma io non sono un italiano, e ci sono voluti 33 anni per finalmente capirlo, nonostante tutto l'amore e la passione integrale che serbo per l'Italia. Né sono un americano, anche se ho passato tutta la mia vita nelle Americhe. Sono, invece, un Italo-Americano, con tutta una mia fisionomia socio-culturale che non si può sopprimere sotto un manto di ufficiosità politica, non voluta né richiesta.

Dico, quindi, che non ci credo a questi - chiamiamoli così - fuochi fatui dell'operosità ufficiale della volontà istituzionale, perché ho invece gran fiducia nella bravura e nello spirito di sacrificio dell'emigrante, nella sua capacità di confrontarsi e di conquistarsi il proprio territorio socio-culturale, politico ed economico. Credo proprio in quelle persone insigni le cui storie racconta Goffredo. Come Dan Fante, scrittore, poeta, drammaturgo di successo, figlio del famoso John Fante, un altro abruzzese d’origini umili che si alimenta con l’Italia nelle vene.

Dan, personaggio difficile, diffidente, intenso quanto il padre, un artista post-moderno e scomodo per autodefinizione. Un carattere, si potrebbe definire, torricellano: sempre orgoglioso comunque delle sue origini nell’entroterra abruzzese, rappresenta l’iconizzazione della sua discendenza e del titolo del racconto Il dio di mio padre, scritto dal padre John e che dà nome al Festival omonimo che si svolge ogni anno a Torricella Peligna. Oppure personaggi come lo stesso Goffredo Palmerini, Ilaria Guidantoni, Tiziani Grassi, Canio Trione, insigniti del prestigioso Premio per i Diritti Umani “Nelson Mandela”.

Credo piuttosto, da buon Italo-Americano, in quel fattore indiscutibile del potere dell'individuo, nella capacità trasformativa del singolo gesto, piccolo o grande, che puntualmente trova risonanza storica nella quotidianità di ogni singolo emigrante. Potremmo, in tal senso, dire che i personaggi e gli eventi che descrive Palmerini, le prolifiche situazioni vitali di preziosi tirocini di vita, le generosità economiche che si manifestano nelle nostre comunità, sono quegli sprazzi d’eccellenza e le gradite scoperte che contrassegnano le comunità abruzzesi in tutto il mondo e che rispecchiano il fenomeno migratorio nei suoi molteplici campi.

Il ruolo di Goffredo Palmerini, secondo me, in questo marasma confuso e intricato di relazioni, tutto all'insegna di quella dicotomia tra patria d’origine e patria d’elezione, è rilevante: è un ruolo chiave.  Goffredo rappresenta una pietra miliare per lo sviluppo di un nuovo tipo di rapporto che comprende non solo il giornalismo come reportage, ma con i suoi scritti egli installa un utilizzo dell’informatica che abbraccia e mette in rete imprenditori e operai, studenti e professori, commercianti e casalinghe, figli piccoli e grandi, appaltatori e pensionati, in un nuovo mondo virtuale ricco di relazioni vissute forsanche più intensamente, perché accomunati attraverso l'immediatezza del messaggio e del sentimento. Vedere e sentire i nostri co-emigranti in tempo reale via email, Facebook, Skype e iPad e sapere che stiamo tutti bene, che abbiamo saputo farci strada nonostante il fardello ereditato, vuol dire avere una nuova forza integrale che ci spinge a cercare nuovi contatti e possibili orizzonti da varcare.

Come scrisse Petrarca, parlando degli antipodi del globo e riferendosi a S. Agostino - Petrarca, dicevo, parlando degli antipodi, si domandava "chissà quali storie o genti ci attendono laggiù".  La risposta, a chi se l'è posta come me, ora ce l'abbiamo. Tutto merito di Goffredo Palmerini, che queste storie e genti ce le racconta e lascia che si raccontino. In questo mondo on-line ecco che leggiamo di Laura Benedetti, direttore del dipartimento di italiano della Georgetown University di Washington D.C., professoressa e scrittrice aquilana che rileggendo i nostri classici, in particolare La Gerusalemme liberata di Tasso, prende spunto per creare nuovi personaggi femminili che nascono nell’ombra della Diana tassiana.

Scopriamo Stefano Pelaggi, che con il suo libro Emigrazione italiana e colonialismo in America Latina, un testo incentrato sui tentativi del Regno d’Italia di coniugare i flussi migratori con le esigenza della politica estera e commerciale della nuova nazione. Accompagniamo lietamente Mario Fratti, che continua a stupirci con le sue opere e con i graditi successi a Broadway. Impresa difficile se non praticamente impossibile anche per i più bravi americani, ma non per il nostro abruzzese cult, ormai nell’olimpo del teatro, che peraltro continua a sorprenderci con due generi letterari diversi dalla drammaturgia: il romanzo e la poesia.

E qui dovrei aggiungere anche le tante notizie su presentazioni di libri, mostre d’arte, cerimonie di premi ed omaggi, aperture di centri culturali e sportivi, per concludere con le tante manifestazioni di amicizia che valorizzano la presenza degli emigranti abruzzesi nel vivo tessuto delle proprie comunità. Piccoli miracoli, raccontati come fioretti preziosi di operette morali, che illustrano viaggi della speranza in terra straniera riportati in Italia e poi diventati storie di successo, tutto nell’arco d’una generazione, passando dall’essere malvisti e discriminati fino a stare nei Parlamenti e nei Governi delle Nazioni, in settori importanti della società e della cultura, fino a diventare anche capitani d'industria, come avvenuto per la più grande industria automobilistica italiana nel mondo.
    
Sono modelli d’eccellenza che trovano sbocco in personaggi trainanti che permettono lo sviluppo economico, politico e sociale delle nostre comunità. Come un fitto dialogo tra un contesto ricco d’orizzonti promettenti ed emergenti ed uno a volte ripiegato sulla propria austera ma sempre elegante indole storica, questo libro di Goffredo Palmerini rivela una comune ansietà contemporanea riguardo quei problemi d’identità personale, d’identità etica e infine d’identità nazionale che si erode in un mondo sempre più divorato dal consumismo e dall'indifferenza.

Palmerini, in questo libro, racconta sia l'abruzzese emigrante sia l’abruzzese che non ha mai varcato la frontiera, ma che entrambi conquistano il successo con le proprie imprese, che possono anche sembrare momenti di redenzione personale ma non di riscatto. La propria dignità l’abruzzese non l'ha mai persa; non ha mai dovuto ridiventare italiano o abruzzese nel mondo, perché questo sentimento intimo non si è mai affievolito.

La missione di Goffredo Palmerini - e non a caso la definisco missione - è invece centrale e maestra. Dando voce a chi non l'aveva, fa capire a chi non ci ha mai pensato o a chi ha facilmente dimenticato, che esiste un fitto arazzo di personaggi e situazioni, di comunità ed eventi che varcano i confini di quell’Italia brava gente che è rimasta a giocare in casa. Questo suo giornalismo ricco di curiosità e desiderio di conoscenza varca frontiere invisibili, creando un mondo virtuale pulsante di chiarezza e nettezza, al di là del solito reportage colonialistico di osservatore colto, per diventare invece un tramite di colloqui vivaci e di reciproco rispetto. E per questo, da Italo-Americamo con l’Italia nel cuore, io non posso che ringraziarlo.

*docente Università di Ottawa (Canada)