martedì 3 gennaio 2017

LA RAPPRESENTAZIONE DEL PRESEPE VIVENTE COMMUOVE E CONQUISTA GORIZIA








LA RAPPRESENTAZIONE DEL PRESEPE VIVENTE COMMUOVE E CONQUISTA GORIZIA
“Come a Betleem” del Gruppo Artistico di Pianola (L’Aquila) incanta il pubblico: molti gli abruzzesi

di Goffredo Palmerini



GORIZIA – Uno straordinario successo per la missione culturale abruzzese in Friuli Venezia Giulia, nella splendida città di Gorizia. Organizzazione perfetta, curata nei minimi dettagli dall’Associazione Abruzzesi e Molisani e dal suo infaticabile presidente, gen. Roberto Fatigati. Accoglienza assai calorosa della città e del suo sindaco Ettore Romoli, entusiasta della manifestazione, che con l’intera Amministrazione comunale ha voluto sostenere l’evento, insieme alla Camera di Commercio. Incredibile la risposta del pubblico, commosso dalla rappresentazione di “Come a Betleem”, realizzata dal Gruppo Artistico di Pianola, frazione alle porte dell’Aquila che ha portato in trasferta, in una sorella terra di confine e con un essenziale numero di 50 figuranti rispetto ai 300 che solitamente schiera, l’antica tradizione del Presepe vivente, riuscendo ad intrigare e a commuovere un’intera città, i numerosi spettatori giunti da tutta la regione, gli abruzzesi e molisani confluiti da ogni angolo del Friuli Venezia Giulia. Questi in pillole gli esiti d’un evento culturale molto intenso di pathos e spiritualità che ha voluto unire due città, L’Aquila e Gorizia, in un abbraccio d’amicizia, di gratitudine e solidarietà. Ma ora andiamo per gradi a raccontare questa magnifica missione e le sensazioni che l’hanno accompagnata.

E’ appena passata la mezzanotte quando l’autobus parte da Pianola con una cinquantina di persone d’ogni età, dal piccolo Manuel - l’ultimo nato del paese -, di appena un mese ma già protagonista in un ruolo cardine del Presepe vivente, Gesù Bambino, al più anziano figurante, l’ottuagenario Nello, destinato ad interpretare, come da oltre quarant’anni puntualmente fa, il Centurione romano. Tutti componenti dell’affiatato Gruppo Artistico che dal 1973 ogni anno rinnova a Pianola la suggestione della Natività di Cristo. La compagnia è festosa, simpatica, sotto la conduzione sicura del presidente Mario Corridore, succeduto recentemente alla guida dell’associazione dopo la scomparsa del fondatore, Andrea Corridore, che l’ha presieduta fino al giorno della sua morte, avvenuta qualche mese fa. E con lui c’è l’altro stratega del Gruppo, Carlo Gizzi, regista del Presepe vivente. Accompagna il Gruppo Artistico l’assessore alla Ricostruzione Maurizio Capri, a rappresentare la Municipalità aquilana, ma ci sono anche il consigliere comunale Guido Quintino Liris e la presidente del Consiglio territoriale di Partecipazione Sabrina Di Cosimo, sebbene entrambi con prevalente compito di attori di scena. Anche chi scrive è della comitiva, richiesto dal presidente dell’Associazione Abruzzesi e Molisani in Friuli Venezia Giulia, Roberto Fatigati, al quale non si può dire di no per la passione e l’impegno che dedica al sodalizio sin dal giorno della sua fondazione, nel 1989.


Attraversato il traforo del Gran Sasso, alle spalle la maestosità del Gran Sasso d’Italia, si scende verso l’Adriatico. Un’ora di viaggio e già Morfeo fa proseliti a bizzeffe. In autostrada solo una rapida sosta in autogrill nei pressi di Rimini, poi si fila verso il mattino. Un’enorme rossa palla di fuoco incendia l’orizzonte a ponente, quando siamo sul passante di Mestre. Sono quasi le 8, c’è traffico, ma si scorre fluidamente verso Trieste. Uscita a Sistiana, si prende la strada costiera. Ci attende Francesco Diana, componente dell’Associazione Abruzzesi e Molisani, risiede a Trieste ed ha il compito d’accoglierci e guidarci in visita alla città giuliana, capoluogo della regione Friuli Venezia Giulia. Francesco Diana, sottufficiale della Guardia di Finanza in pensione, è persona di grande garbo, conoscitore della storia e delle meraviglie di Trieste. La prima sosta è dedicata alla visita del magnifico Castello di Miramare, preziosa perla d’architettura situata sulla punta del promontorio di Grignano, in posizione magnifica per ammirare il panorama lungo l’intero arco del golfo. Voluto dall’arciduca Massimiliano d’Asburgo per sé e sua moglie Carlotta, nel 1855 ne affidò la progettazione all’architetto austriaco Carl Junker. Immersa in un parco di 22 ettari ricco di specie arboree, questa splendida dimora principesca costruita in pietra bianca d’Istria, anche dopo la tragica morte in Messico di Massimiliano, nel 1867, che di quel Paese era diventato imperatore, ospitò più volte il fratello, il re Francesco Giuseppe con sua moglie Sissi, in occasione delle numerose visite a Trieste, importante città portuale nel Mediterraneo e sbocco al mare del Regno d’Austria e Ungheria.

Come sempre interessante la visita al Castello di Miramare, dal 1955 diventato museo storico, per ammirare oltre alla bellezza architettonica, la ricchezza degli arredi, dei dipinti e degli arazzi, la raffinatezza delle suppellettili. Quest’anno, nel centenario della morte di Francesco Giuseppe, il Castello ospita una bella mostra, con opere che raccontano diversi episodi attraverso le cronache del tempo, riportate dai giornali dell’epoca, che documentano la centralità di Trieste come moderna città dell’impero. Sono quasi le 11 del 28 dicembre quando si riprende la via per Trieste, ammirando il lungomare e poi i fastosi palazzi che fanno da quinte verso Piazza dell’Unità d’Italia. E’ il salotto della bella città adriatica, una delle più grandi piazze - forse la più grande in assoluto - aperta sul mare. Contornata su tre lati da stupendi palazzi, da sinistra schiera il magnificente Palazzo della Luogotenenza austriaca, ora sede della Prefettura, il Palazzo Stratti, al centro il Palazzo Modello sede municipale, l’antico Palazzo Pitteri, a destra il Palazzo Venoli e il Palazzo del Lloyd Triestino ora sede della Regione. Al centro della piazza la settecentesca Fontana dei Quattro Continenti, con le allegorie dei continenti allora conosciuti. Davanti alla piazza, disteso sul mare, il Molo Audace, così nominato dopo la fine della Grande Guerra, quando la prima nave italiana - l’Audace, appunto - entrò nel porto di Trieste tornata italiana dopo l’annessione. E’ tardi, c’è solo tempo d’ascoltare dalla nostra guida informazioni sulla città mentre l’attraversiamo in pullman, salendo verso le colline che fanno da anfiteatro alla disposizione urbana. Ricordiamo la Risiera di San Sabba, lager di sterminio nazista in terra italiana, e la Foiba di Basovizza, mentre si va verso il Santuario di Monte Grisa, con vista spettacolare sul golfo e sulla città. E’ un’imponente costruzione in cemento armato, il Santuario, con struttura triangolare progettato dall’architetto Antonio Guacci, voluta dall’allora arcivescovo di Trieste Antonio Santin per assolvere ad un voto di protezione della città dalle distruzioni belliche. Dedicato a Maria Madre e Regina, fu completato nel 1965 come santuario nazionale mariano e nel 1992 visitato da Giovanni Paolo II. Erto a 330 metri sul mare, sul punto più alto dei colli che coronano la città, mostra un panorama sul golfo davvero mozzafiato. Interno alla costruzione il ristorante dove facciamo il pranzo. Salutiamo Francesco, la nostra premurosa guida triestina, riprendendo il viaggio verso Gorizia, ma con una sosta al Sacrario di Redipuglia.

Con un qualche ritardo sulla tabella di marcia arriviamo a Redipuglia intorno alle 3 e mezza del pomeriggio. Ci attende Fabio Fatigati, figlio di Roberto, per accompagnarci nella visita all’immenso Sacrario dove campeggia il motto “Presente” ripetuto all’infinito sui frontoni degli innumerevoli gradoni lapidei della lunga scalinata del monumento, confinata da due filari di cipressi, sulla cui sommità in struggente prospettiva dominano le tre croci, come un nuovo doloroso monte Calvario. “Presente” è scolpito per ogni caduto di quel monumentale cimitero a 100mila vittime della Grande Guerra, riportate in rigoroso ordine alfabetico, a ciascuna la sua lastra di bronzo. In 35mila i conosciuti, gli altri 65mila sono militi ignoti. Lì nei pressi scorre l’Isonzo, il fiume rosso di sangue dei caduti, poco distante dalla tristemente famosa Caporetto, ora in terra slovena, laddove il 24 ottobre 1917 il fronte italiano cedette all’assalto dell’esercito austro-ungarico, nella “rotta” diventata la più grave disfatta per l’esercito italiano, seguita dalla ritirata oltre il Piave, prima di preparare la riscossa, il 4 novembre dell’anno seguente, immortalata nel celebre Bollettino della Vittoria diramato dal generale Armando Diaz. Proprio in questi luoghi del Carso bagnati dall’Isonzo operò la Terza Armata dell’Esercito italiano, comandata dal generale Emanuele Filiberto di Savoia Duca d’Aosta, onorato con un grande cippo di marmo verde ai piedi della scalinata. Dopo la visita ai resti delle trincee blindate, ai piedi del Sacrario, raggiungiamo Nova Gorica, in Slovenia, dove siamo sistemati in albergo. Sullo sfondo il monte Sabotino e il Monte Santo, entrambi segnati dalla Prima Guerra Mondiale. Il sole va tramontando quando ci rechiamo a Gorizia, praticamente attaccata alla parte di città in Slovenia. E’ Gorizia città di confine e incrocio di genti e culture. E’ una bella città, Gorizia, con una lunga storia.

Nei pressi del sito dove oggi si dispiega Gorizia (dallo slavo gorica, diminutivo di gora - monte, dunque piccolo monte) dal primo secolo a.C. sorgevano infatti due villaggi romani, Castrum Silicanum, l’attuale Solkan, e Pons Aesontii, oggi Mainizza, come indica la Tavola Peutingeriana, copia d’una antica carta romana che mostrava le antiche vie militari dell’Impero. Lì, sulla via Gemina, nel punto in cui veniva attraversato l’Isonzo, c’era una mansio, stazione di posta e foresteria gestita dal governo romano e messa a disposizione di dignitari e ufficiali che viaggiavano per ragioni di stato. Intorno a tali strutture, poste sulle vie consolari e militari romane, si sviluppavano solitamente centri abitati. Appunto queste le prime origini dell’attuale Gorizia, allora confine con l’antica provincia romana del Norico. Ma per trovare nella storia la prima citazione della città bisogna aspettare l’anno 1001, quando Gorizia compare in una donazione dell’imperatore Ottone III con la quale si cedeva in parti uguali il castello di Salcano e la villa denominata Goriza a Giovanni, patriarca di Aquileia, e a Guariento, conte del Friuli. La città dal 1090 venne governata dapprima dai Mosburg, quindi dai Lurngau. Sotto il loro governo Gorizia si sviluppò, crebbe la sua popolazione, costituita in massima parte da friulani e giuliani, tedeschi e sloveni, questi ultimi insediati generalmente nella periferia della città. La potenza militare dei Conti di Gorizia, unita ad una saggia politica matrimoniale, permise alla Contea, nel periodo di massimo splendore tra la seconda metà del Duecento e la prima del Trecento, d’estendersi su gran parte del nordest italiano, ivi comprese per un breve periodo anche le città di Treviso e Padova, la parte occidentale dell’attuale Slovenia, l’interno dell’Istria e alcune parti di territorio in Tirolo e Carinzia.

Gorizia, che ormai aveva acquisito connotazioni urbane, ottenne il rango di città durante il regno di Enrico II (1304-1323). Nei primi decenni del secolo successivo, con l’assorbimento alla Repubblica di Venezia del Principato patriarcale di Aquileia, i conti di Gorizia chiesero al Doge l’investitura feudale, riconoscendosi quindi vassalli della Serenissima. Nel 1500 Leonardo, ultimo conte rimasto senza discendenti, alla sua morte lasciò in eredità la contea a Massimiliano I d’Asburgo. L’atto, non valido per il diritto internazionale del tempo, per il fatto che la Contea di Gorizia era unita alla Repubblica veneta da vincoli di vassallaggio, spinse la Serenissima a denunciare tale violazione attraverso i canali diplomatici. Ma ogni tentativo veneziano di riappropriarsi della città, anche mediante la forza, risultò tuttavia vano. Occupata militarmente nel 1508, per sedici mesi, dopo la disastrosa sconfitta subita dai Veneziani ad Agnadello ad opera dei Francesi, la guarnigione veneta fu costretta ad abbandonare la città. Da allora Gorizia farà parte dei domini asburgici, prima come capitale dell’omonima Contea e, successivamente, come capoluogo della Principesca Contea di Gorizia e Gradisca, entrando a metà dell'Ottocento a far parte del Litorale Austriaco. Suoi conti saranno gli stessi imperatori asburgici, fino al 1918.

Nel corso della Prima Guerra mondiale, a prezzo di enormi sacrifici di vite umane tra cui si segnalarono sopra tutto i Gialli del Calvario, così chiamati per il colore delle mostrine e per gli atti di valore sul Monte Podgora, le truppe italiane entrarono una prima volta a Gorizia nell’agosto 1916. In quella cruenta battaglia del 9 e 10 agosto  persero la vita 1.759 ufficiali e 50.000 soldati circa di parte italiana e dalla parte austriaca morirono 862 ufficiali e circa 40.000 soldati. Fu uno dei più grandi massacri di quella sanguinosissima guerra. Persa a seguito della rotta di Caporetto, nell’ottobre 1917, la città venne definitivamente ripresa dall’esercito italiano il 7 novembre 1918. Al termine del secondo conflitto mondiale, con il Trattato di pace, Gorizia dovette cedere alla Jugoslavia tre quinti circa del proprio territorio. Il centro storico e la massima parte dell’area urbana restarono però in territorio italiano. Il confine attraversava una zona semicentrale della città, lasciando nella parte non italiana anche molti edifici e strutture di pubblica utilità. Tra queste la stazione di Gorizia Montesanto, che si trovava sulla linea ferroviaria Transalpina collegante la città all’Europa Centrale. La piazza antistante la stazione, suddivisa tra le due nazioni, dal 2004 è stata resa visitabile liberamente su entrambi i lati dopo l’abbattimento di parte della rete confinaria avvenuto con l’entrata della Slovenia nell’Unione Europea. Lo stesso provvedimento di eliminazione del “muro” divisorio ha consentito di “liberare” le relazioni in territorio sloveno con la moderna città di Nova Gorica, costruita negli anni Cinquanta del secolo scorso quando i territori annessi alla Jugoslavia, con la chiusura del confine verso l’Occidente, vennero a trovarsi senza un centro amministrativo ed economico dove poter gravitare.

Dal 21 dicembre 2007, con il trattato di Schengen, le città di Gorizia e Nova Gorica sono finalmente senza interposti confini. Il legame sempre più forte che le unisce ha permesso alle due città d’avviare un processo di formazione d’un polo di sviluppo unico che rivestirà sempre più una notevole importanza, nella reciproca collaborazione fra Italia e Slovenia. Negli ultimi anni Gorizia sta conoscendo una lenta ma costante rinascita, sia a livello infrastrutturale che sociale. Vi si respira infatti l’atmosfera sospesa, tipica d’una città di confine. Una bella città. Il Castello medievale, con il suo incantevole borgo, è un vero gioiello. Dai suoi spalti la vista può spaziare sulle dolci distese di colli e sull’intera città, dove convivono in modo armonioso architetture medievali, barocche e ottocentesche. La borghesia asburgica amava Gorizia per il suo clima mite: non a caso la città era chiamata la “Nizza austriaca”. Incantevoli i suoi parchi, come il Parco Piuma sul fiume Isonzo, il Parco del Palazzo Coronini Cronberg e il Parco Viatori. Grandi spazi ha anche la cultura, con tanti musei, come il Museo della moda e delle arti applicate, il Museo della Grande Guerra e la Collezione Archeologica, il Museo del Medioevo Goriziano all’interno del Castello e la Pinacoteca di casa Formentini. Fra i molti palazzi storici della città emergono il Palazzo della Torre, Palazzo Attems Petzenstein e Palazzo Werdenberg. La storia della comunità ebraica di Gorizia è raccontata invece nel Museo Sinagoga Gerusalemme sull'Isonzo. Sulle alture della città si trova l’imponente Ossario di Oslavia, che raccoglie le spoglie di soldati italiani ed austro-ungarici caduti durante la Prima Guerra Mondiale e, in occasione del Centenario della Grande Guerra, dovrebbe davvero far riflettere sull’insipienza umana.

Tornando alla rappresentazione del Presepe vivente, sarà Piazza della Vittoria, cuore della città, ad ospitare la manifestazione. Oggi è giorno della vigilia dell’evento. La città vive grande attesa per una rappresentazione del tutto nuova e singolare. E’ infatti la prima volta che Gorizia vede un Presepe vivente. Molto diffuso nel meridione d’Italia, l’Abruzzo ne conta diversi e di notevole rilievo. Quello di Pianola, “Come a Betleem”, vanta una tradizione lunga 44 anni, una straordinaria partecipazione di volontari per gli oltre 300 personaggi, un contesto ambientale unico per la rappresentazione - una cavea naturale alle porte dell’Aquila dove un villaggio palestinese è stato riprodotto, insieme alle scene mobili, su progetto dell’architetto Giuseppe Santoro -, la qualità e la bellezza dei costumi di scena. Antica terra di pastori e transumanze, l’Abruzzo ha nelle sue corde culturali più profonde lo spirito della tradizione del Presepe vivente. Quello di Pianola si colloca nei piani alti della qualità e della suggestione. Il nucleo essenziale di figuranti darà vita ad alcune scene significative che raccontano la storia della Salvezza, dall’annunciazione a Maria a quella di Giuseppe, all’arrivo a Gerusalemme per il censimento e poi a Betleem, alla natività del Redentore, all’adorazione dei pastori fino all’arrivo dei Magi.

Roberto Fatigati viene ad incontrarci in albergo, restando a cena con noi. Si sincera che tutto sia a posto, attento com’è ad ogni aspetto organizzativo, supportato efficacemente dalla signora Silva, sua moglie. E’ un evento impegnativo per l’associazione che presiede, a consolidare la qualità delle proposte culturali che il sodalizio da oltre un quarto di secolo offre alla città, conquistandosi considerazione e stima. Nel suo intervento di saluto al Gruppo di Pianola queste cose Fatigati dice, dichiarando l’orgoglio delle proprie origini abruzzesi, egli aquilano, che lo porta ad operare sempre per dare lustro all’Abruzzo, anche se talvolta le istituzioni abruzzesi non sono molto attente a quanto gli abruzzesi emigrati fanno, in Italia e all’estero. L’atmosfera festosa fa preludere ad un domani senza patemi. Tutto pare pronto a dovere. Il presidente del Gruppo Artistico, Mario Corridore, insieme al regista Carlo Gizzi, hanno parole di viva gratitudine per il gen. Fatigati e per l’Associazione Abruzzesi e Molisani del Friuli V.G. Appuntamento all’indomani, 29 dicembre, giorno della rappresentazione.

Corridore e Gizzi, in prima mattinata, raggiungono Piazza della Vittoria per fare il punto dell’organizzazione e dei supporti tecnici. S’incontrano con l’assessore Arianna Bellan, che sta curando per l’amministrazione civica gli aspetti logistici dell’evento. E’ presente Roberto Fatigati e anche Giorgio Lorenzoni, presidente della Pro loco che insieme al Kulturni Dom e al Gruppo Alpini di Gorizia collabora con il Comune nell’organizzazione dell’evento. Vengono risolti gli ultimi problemi per la preparazione dell’amatriciana della solidarietà, con la raccolta fondi per le popolazioni terremotate del centro Italia, a fine rappresentazione del Presepe vivente. Definiti i dettagli con l’assessore Bellan, molto disponibile ed efficiente, si va al Kulturni Dom, dove ci attende il direttore Igor Komel. Persona amabile e di grande cultura, Komel ci conduce in visita negli ambienti della Casa della Cultura slovena, dove ammiriamo una grande sala teatrale, ampi spazi per mostre - attualmente allestita un’interessante esposizione dell’artista Laura Grusovin -, un bel Ridotto per conferenze e persino una magnifica palestra per basket e pallavolo. Tutto, nella struttura, sembra girare alla perfezione. Il direttore non fa mistero dell’amicizia esistente con l’Associazione Abruzzesi e Molisani e la stretta collaborazione intessuta con il sodalizio. Nel primo pomeriggio siamo già nella grande piazza per seguire gli ultimi aspetti operativi e per quanto necessario per l’amatriciana, da prepararsi con la cucina da campo del Gruppo Alpini di Gorizia, in arrivo puntuale all’ora convenuta.

Alle 17:30 il gruppo del Presepe vivente raggiunge Piazza Sant’Antonio. Da lì muoverà in fiaccolata, attraversando le strade del centro storico cittadino, fino a Piazza della Vittoria. Il giorno volge alla sera. La piazza si va riempiendo di gente, molte persone giungono da varie località della regione. C’è curiosità e attesa per l’evento. Molta animazione nella piazza, ormai gremita. Poi si fa silenzio quando il centurione con un drappello soldati romani, con insegne dell’impero, arriva nel luogo della rappresentazione, seguito dagli altri figuranti con le fiaccole accese, e a chiudere i Re Magi, uno dei quali è don Luciano Bacale Efua, parroco di Pianola e originario della Guinea equatoriale, il cui paramento dorato ben contrasta con la pelle nera del viso. Il sindaco Ettore Romoli, dal palco, saluta il pubblico presentando l’evento, proposto al Comune dall’Associazione Abruzzesi e Molisani in Friuli. “E’ una serata inusuale per la città - dice il sindaco Romoli - per la prima volta Gorizia assiste ad una simile rappresentazione. Il presepe vivente è infatti una tradizione dell’Italia centro meridionale. Oggi siamo grati agli amici dell’Aquila che ci portano tutta la loro spiritualità e tenacia, facendoci sentire ancor più vicini alle popolazioni terremotate…”. L’assessore regionale Sara Vito è altrettanto affettuosa nel suo saluto, rimarcando il valore simbolico dell’evento.

La rappresentazione ha inizio, le scene a terra o sopra al palco. Il racconto evangelico che prelude alla natività e poi alla nascita di Gesù in un’umile capanna di Betleem si svolge con una forte carica d’emozionante spiritualità. La voce narrante, il commento musicale, le voci dei dialoghi richiamano l’atmosfera di duemila anni fa. Il pubblico segue con attenzione le scene, quasi in raccoglimento. Fino alla scena madre della nascita di Gesù, nella mangiatoia, con il piccolo Manuel che a un mese di vita raccoglie applausi e provoca emozioni. Le scene dell’adorazione dei pastori e dei Magi chiudono la rappresentazione, accolta dal calore del pubblico e da un lungo applauso, a testimonianza che la tradizione del Presepe vivente ancora una volta affascina. Roberto Fatigati, dal palco, ringrazia il sindaco e l’Amministrazione, gli enti che hanno collaborato, il Gruppo Artistico di Pianola. L’evento ha rafforzato il legame tra l’Abruzzo e il Friuli V.G., tra L’Aquila e Gorizia, tra i friulani e gli abruzzesi e molisani che qui hanno trovato la loro seconda terra, dopo quella natale. Chi scrive, a nome del Gruppo Artistico di Pianola, ringrazia la Municipalità e la comunità di Gorizia per l’accoglienza. Grandi affinità hanno gli abruzzesi e i friulani, entrambi caratterizzati da una gente forte, tenace, di poche parole e molti fatti. Come l’alpinità delle due regioni di montagna, simili anche per l’indole della loro gente. E con un elemento che le affratella, come la nascita qui a Gorizia, nel 1935, del Battaglione Alpini “L’Aquila”, che per 40 anni ha operato in Friuli nella Brigata Julia. Caloroso e appassionato il saluto dell’assessore Maurizio Capri a nome della Municipalità e dell’intera comunità aquilana, fortemente grata per i gesti di vicinanza e di concreto aiuto che Gorizia ha riservato all’Aquila dopo il terremoto del 2009. Il Presepe vivente vuole dunque essere anche un segno di gratitudine verso Gorizia e l’intero Friuli Venezia Giulia.

Intanto la cucina da campo degli Alpini di Gorizia è in piena attività. Si cuoce la pasta all’amatriciana, preparata dal team dell’associazione “Scherza col cuoco” coordinato da Carlo Gizzi. Ordinatamente la fila del pubblico riceve al bancone il piatto di pasta all’amatriciana, con il gustoso odore di guanciale soffritto. Chi vuole lascia liberamente un’offerta per le popolazioni terremotate del Lazio, Umbria e Marche. Vengono alla fine distribuiti circa 400 piatti, 25 i chili di pasta cucinati, 25 i chili di pomodori pelati e 10 chilogrammi di guanciale per la preparazione del prelibato sugo all’amatriciana. Circa 900 euro raccolti, che andranno in donazione al comune di Amatrice. Soddisfatti tutti della perfetta riuscita della manifestazione e dell’iniziativa di solidarietà per le popolazioni terremotate. Entusiasta il sindaco Ettore Romoli, rimasto fino a chiusura della manifestazione insieme all’assessore Arianna Bellan. La cttà ha dato una bella prova di attenzione culturale e di solidarietà. L’Aquila e Gorizia si sentono ancora più legate d’amicizia, come l’assessore Maurizio Capri annota, preludendo ad ulteriori iniziative. Molto soddisfatto il presidente Roberto Fatigati, che vede coronato dal successo l’impegno profuso in mesi di preparazione. Abbracci ed auguri a chiusura della serata. Il mattino seguente si riparte per L’Aquila, con una sosta a Ferrara, per pranzo e visita alla città, tutto in 4 ore. Si apprezza la bellezza della città degli Estensi, la magnifica Cattedrale, il Castello, il Palazzo dei Diamanti, l’intrico delle vie del centro storico e la buona cucina d’una trattoria tipica, nel cuore della città. L’arrivo a Pianola intorno alle 23, arricchiti di emozioni e di nuove amicizie. Un buon viatico per l’anno nuovo che viene.

 




sabato 31 dicembre 2016

Slavica Pejović U OKVIRU



Slavica Pejović
U OKVIRU
 L'immagine può contenere: una o più persone, notte e sMS

Poranila ja
Zatvarn kapke
Na prozorima
Godine ove

I iz dubina
Modrih
Vazduha
Udah bi
Ne tragam
Za prisutnim
I otsutnim
Danima
Na putu su
Sećanja skrivena
Smehom
I suzom istočenom
Doći će
Kad požele
Čak i nezvani
Tragovima utrtim
Da bude noću
I svitanja dane
Prahom
Rasutih radosti
A okna prozora
Kad raskrilim
U oči nek blesnu
Dani godine Nove
U okviru horizonti
Neomedjani
Nada i Izazov
Čekani i beskrajni
...Plavetnilu gde prihodim(o)

Belgio, a 60 anni dal disastro - Goffredo Palmerini


Mons, la Grand Place
Mons, chiesa di Santa Elisabetta
Mons, la Collegiata di Sainte Waudru
Mons, chiesa di Saint Nicholas
Hornu, le Grand Hornu
 Elio Di Rupo, nel suo intervento di saluto, al convegno
Hornu - Calò , Palmerini, Napolitano, De Vita
L'intervento dell'assessore Gianluca Miccichè
Hornu, il pubblico presente al convegno
L'artista Antonio Cossu con Raffaele Napolitano
Al centro, Tindaro e Maria Tassone


Ai cancelli d'ingresso della miniera di Bois du Cazier

MONS - E' una bella città Mons. Vi arrivo in treno da Charleroi nel primo pomeriggio di metà dicembre, il sole splendente e un insolito cielo color turchese. Arrivo in albergo. Mi appare tutto singolare. L'ingresso copre parte della facciata d’una antica chiesa, adorna d'un bel rosone vetrato e un timpano a vela. Ma è solo l'inizio, perché dalle evidenze interne constato che l'hotel Dream è proprio realizzato all'interno d'una chiesa, forse un complesso monastico nel centro della città. Restano ancora in vista i basamenti delle colonne ed altre tracce della primitiva destinazione intorno alle strutture portanti in acciaio che supportano l'attuale disposizione alberghiera. Al terzo piano, mentre cerco la mia camera 309 "Art nouveau" - tutte le stanze hanno un nome - m'imbatto nella vetrata policroma interna al rosone della facciata. Fa da sfondo al lungo corridoio dove sono distribuite le stanze. La camera è ampia, con bagno arricchito da una finestra ogivale ornata da stipiti in pietra grigia a foggia gotica, propria delle antiche chiese di questa parte d'Europa. E' la prima sorpresa d'una città sorprendente come Mons, il cui antico centro storico non rivela sbavature nell'armonia delle architetture di palazzi, case e chiese, con l'intrico di vie tutte pavimentate in selci e bordature in pietra grigio chiaro e ambra. Oggi è il 15 dicembre. Non ho impegni e questa mezza giornata è utile per conoscere un poco questa città che l'anno scorso è stata Capitale europea della cultura.
Il cuore della città è la Grand Place. E' poco distante. La raggiungo godendomi i graziosi negozi e le vetrine ben addobbate con i simboli del Natale incipiente. Rue de la Triperie conduce direttamente nella piazza maggiore, la strada lievemente in salita. L'ingresso nella piazza, salotto della città, è salutato dal canto dell'acqua che sgorga da quattro bocchette d'una fontana. La Grand Place, un vasto rettangolo irregolare, appare nella sua bellezza, contornata com'è di magnifiche facciate. Vi spicca quella del Municipio, l'Hotel de Ville con i pennoni imbandierati e ghirlande a cascata di luci natalizie. Animata di voci la grande piazza, di gente, di colori. Piccole casette bianche di legno del mercatino vendono prodotti tipici, cucina pronta e bevande a chi va godendosi il tepore del sole calante e un anticipo d'aria natalizia. Animatissimo il palaghiaccio all'aperto, dove ragazzi e bambini piroettano sui pattini, in gare dal breve respiro. Mi piace annusarla, questa città. E scoprirla pian piano, anche per l'orgoglio di sentirvi tracce d'Abruzzo. Ne è sindaco, infatti, il figlio di un'umile famiglia d'emigrati abruzzesi, Elio Di Rupo, personalità politica di grande rilievo in Belgio, e in Europa, per essere stato più volte parlamentare, uomo di governo e, dal 2011 per tre anni Primo Ministro. Giro per il centro storico facendomi guidare dai campanili. Le chiese, se si ha pazienza di guardarle con attenzione, raccontano la storia d'una città, l'arte, l’anima e persino l'indole degli abitanti, meglio d'ogni altro monumento.
Mons ha la sua nascita nel Medioevo, il suo insediamento urbano sul luogo dove Giulio Cesare, arrivandovi nel primo secolo a.C., fece edificare un castrum, proprio sul colle che domina ora la città. Proprio da questa particolarità, l'essere nata su un rilievo presente in un ampio territorio pianeggiante, gli deriva l'attuale nome che richiama il termine latino. Nel VII secolo, proprio nei pressi di quel monte, la figlia di Clotario II, Waltrude, andata in moglie ad un signorotto del luogo, fece edificare un oratorio dove poi si ritirò in santità fino alla sua morte, nel 688. La santa Waltrude (Sainte Waudru) è patrona della città. Intorno a quel primo nucleo altomedioevale si cominciò a sviluppare un aggregato urbano, cresciuto fortemente nel XII secolo sotto l'impulso del conte Baldovino IV di Hinault, che ne fece una città fortificata. La popolazione aumentò notevolmente e fiorirono i commerci, con numerose attività che si disposero man mano intorno alla Grand Place, centro della vita civile e mercantile. Gli abitanti si dedicarono al commercio e all’artigianato, tanto che Mons diventò la più importante città della Contea di Hinault nella produzione di grano, birra, nell’industria laniera e nella gioielleria. Ancor oggi, come allora, la Grand Place - una delle più belle del Belgio - è il cuore della città, dove si svolgono le tradizioni più care ai cittadini di Mons, come la festa della Ducasse de la Trinité, con il combattimento del Lumeçon che ricorda la lotta di San Giorgio contro il drago, e la processione del Car d’or, quando la statua della Santa Waudru viene portata per le vie del centro sull’antico carro di legno, scolpito e dipinto di bianco e oro. Nel Quattrocento i cittadini di Mons (montois) costruirono in stile gotico l’Hotel de Ville, la casa comunale dove nel 1515 l’imperatore Carlo V - il sovrano sul cui regno non tramontava mai il sole - prestò giuramento in quanto anche Conte di Hinault. Nei due secoli successivi prima gli spagnoli poi i francesi occuparono la città e il grande Sebastien Vauban la munì d’una solida cinta muraria. Le mura fortificate seicentesche sono ora solo un ricordo storico, perché smantellate nel 1864 per essere sostituite dagli ampi viali alberati che contornano come un perfetto ovale l’antica capitale degli Hinault.
Il mio giro nel centro città inizia appunto dalla Grand Place, ammirando l’imponente palazzo municipale, impreziosito da bifore ogivali. Accanto al portone la celebre scimmia in ferro battuto, portafortuna della città e di chiunque le carezzi il capo. Poco distante, sulla Rue de Nemy, la chiesa tardo-gotica di Santa Elisabetta. Ne ammiro l’interno a tre navate, con ampie finestrature vetrate e belle opere pittoriche nelle cappelle, con l’altare maggiore e coro in legno lavorato. Arrancando su stradine lastricate salgo fino al colle più alto della città, al Parco dei Conti, dove gli Hinault avevano il castello. Del complesso resta la Beffroi, torre barocca con grande orologio dalla quale si ammira tutta la città e i dintorni. Lì accanto la Cappella di San Callisto, risalente all’XI secolo, le cui volte ostentano lacerti di affreschi bizantini. Da lassù si può avvistare la corona delle cappelle absidali della Collegiata di Sainte Waudru, che raggiungo percorrendo la Rue de Clercs. E’ un tempio magnificente di stile gotico brabantino, opera di Matheus de Layens, edificata a metà Cinquecento e completata nel 1686. L’interno è a tre navate, imponente l’altezza degli archi e delle vetrate dell’abside principale circondata da cappelle con raffinate sculture, mentre nei bracci del transetto stupiscono i preziosi rilievi cinquecenteschi in alabastro, opera di Jacques Dubroeucq, artista del Rinascimento. La chiesa custodisce il Car d’Or, il bianco carro ligneo processionale della Santa Waudru, finemente decorato con putti e oro zecchino. Ultima visita alla chiesa di Saint Nicholas, anch’essa imponente, con tutti gli altari in legno cesellato arricchiti con dipinti seicenteschi. Il tempo tiranno non consente di visitare i musei della città. Mons è molto viva in campo culturale, non a caso ha avuto il privilegio d’essere per un anno capitale della cultura europea. Lo deve alle sue sensibilità umanistiche, alla sua storia, al suo patrimonio artistico e architettonico. Lo deve anche alla presenza d’una prestigiosa università. L’Umons è nata nel 2009 dalla fusione dell’Università di Mons e dell’antica Facoltà Politecnica, fondata nel 1837. Attualmente la città, che conta 95mila abitanti, ha 22mila studenti, di cui 7mila provenienti da una quarantina di Paesi e ospitati nel campus dell’ateneo.
Passata pressoché indenne attraverso due guerre mondiali, Mons ha chiuso da molti anni l’attività estrattiva che aveva richiamato migliaia di immigrati italiani per il lavoro nelle miniere, in base all’Accordo italo-belga del 1946. Di quell’intesa tra Italia e Belgio - braccia contro carbone - ricorre quest’anno il 70° anniversario, come pure ricorre il 60° della tragedia di Marcinelle, dove nella miniera di Bois du Cazier l’8 agosto 1956 persero la vita 262 minatori, 136 dei quali erano italiani. Nel corso del 2016 numerose manifestazioni si sono tenute in Belgio per l’Anno commemorativo, che si chiude con il Convegno del 16 dicembre a Hornu. Siamo qui per questo, per partecipare all’evento promosso dai Comites del Belgio, d’intesa con l’Ambasciata d’Italia a Bruxelles e in collaborazione con le associazioni storiche dell’emigrazione operanti nel Paese, quali ANFE, ITAL-UIL, INCA-CGIL, FILEF, ACLI, USEF, ASBL. La scelta di Hornu per la manifestazione di chiusura dell’Anno commemorativo non è casuale. C’erano qui diverse miniere di carbone. E il Grand Hornu, villaggio industriale realizzato nel 1810 dall’imprenditore francese Henri De George, grande quartiere urbanisticamente integrato, comprendente il complesso minerario, le abitazioni di minatori e operai, l’isolato degli impiegati. Questo straordinario complesso, esempio d’archeologia industriale, restaurato su progetto di Pierre Habbelinck, dal 2002 ha ripreso a vivere come Museo delle Arti Contemporanee (MAC’s), dove si tengono esposizioni, eventi culturali e concerti.
Raffaele Napolitano, presidente del Comites di Bruxelles e coordinatore dell’Inter-Comites del Belgio, insieme agli esponenti delle associazioni promotrici, per il convegno ha scelto il Centro Culturale italiano di Hornu. In agenda sono previsti gli interventi dello stesso Napolitano, di Michele Schiavone, Segretario Generale del CGIE, dell’on. Gianluca Miccichè, Assessore all’Emigrazione Politiche sociali e del lavoro della Regione Sicilia, del Consigliere d’ambasciata Giovanni Maria De Vita, del Ministero degli Esteri - Direzione Generale per gli italiani all'estero e le politiche migratorie, di Gaetano Calà, Direttore nazionale dell’Associazione Nazionale Famiglie Emigrati (ANFE) e componente del CGIE, e di Goffredo Palmerini, Presidente dell’Osservatorio Regionale Emigrazione dell’Abruzzo. Nel pomeriggio di venerdì 16 dicembre sono arrivati a Mons, da Bruxelles, Raffaele Napolitano e Gaetano Calà. Giusto il tempo per sistemarsi in albergo e si parte. Arriviamo intorno alle 6 di sera ad Hornu. All’ingresso del Centro Culturale c’è Tindaro Tassone, stretto collaboratore di Elio Di Rupo, consigliere alla presidenza del Partito Socialista belga. Abbiamo passato con Tindaro e la splendida moglie Maria una bella serata in amicizia, il giorno precedente, insieme a cena al Tocco d’Italia, un ottimo ristorante di Mons gestito dai coniugi Claudio e Carmela, coppia d’origine siciliana che ci ha regalato il meglio della loro sapienza culinaria. Un grande abbraccio tra Tindaro e Gaetano Calà, sono entrambi siciliani e grandissimi amici. Hanno collaborato e condiviso importanti iniziative dell’ANFE in Belgio. Nel Centro Culturale da oltre mezzo secolo la comunità italiana tiene i suoi incontri di socialità, le iniziative culturali e ricreative, i corsi di lingua italiana per gli emigrati. La grande sala si va già riempiendo. Ezio D’Orazio, abruzzese, project manager della Siemens e una vita nel sindacato e nell’associazionismo in Belgio, sta sistemando il tavolo dei relatori con le bandiere d’Italia e Belgio. Alle 18:30 è previsto l’inizio dei lavori. Qualche minuto prima arriva il sindaco di Mons, Elio Di Rupo, accolto calorosamente ed affettuosamente dal pubblico. Ha un impegno a Bruxelles, ma volentieri è venuto a portare il suo saluto, anche se dovrà lasciare l’incontro. Raffaele Napolitano gli dà subito la parola, non prima però che la Corale Multiculturale abbia cantato l’inno d’Italia, tutti in piedi e la mano sul cuore, e un altro brano tradizionale. Proprio sulle note di questo canto tradizionale è l’incipit del Presidente Di Rupo. “Quando ho sentito il coro cantare mi sono commosso - ha dichiarato Di Rupo - perché mi ha ricordato mia madre. Oggi ricordiamo 70 anni dell’Accordo tra Italia e Belgio. In base a quell’accordo vennero qui dall’Abruzzo mio padre, mio zio, i miei fratelli. Sono venuti a lavorare nelle viscere della terra, in condizioni molto difficili, e hanno resistito perché venivano dalla miseria. Hanno vissuto nelle baracche, in condizioni che non si possono scordare. Fino a quel giorno terribile del 1956. Il mio primo ricordo è quello della tragedia, delle donne che piangevano e gridavano ai cancelli della miniera. Avevo 5 anni. Da quella data tragica i minatori sono stati finalmente accettati e rispettati in Belgio. La mia vita è incredibile. All’università, in politica fino a diventare Primo Ministro. I giovani non debbono scordare da dove veniamo, le nostre radici che hanno forgiato il nostro carattere”. Ancora qualche parola di saluto, poi Di Rupo si congeda.
Raffaele Napolitano richiama il valore delle manifestazioni commemorative, ringraziando per l’impegno profuso tutto l’associazionismo italiano in Belgio e i Comites. Scusa poi l’assenza del Segretario generale del CGIE, Michele Schiavone, trattenuto a casa da problemi di salute. E considerando che l’on. Miccichè è ancora in viaggio da Bruxelles, dà la parola a Gaetano Calà che parla delle condizioni dei nostri emigrati e del ruolo significativo svolto dall’ANFE dal 1947, quando la deputata costituente Maria Federici fondò l’associazione. E soffermandosi sulla tragedia di Marcinelle, che portò al cambiamento radicale delle condizioni di sicurezza delle norme sul lavoro nelle miniere, Calà reca una straordinaria testimonianza storica con la lettera a Maria Federici scritta da una testimone presente a Marcinelle una settimana dopo il disastro, sulla gravità dei problemi che vivevano le famiglie delle vittime e degli altri minatori. E ancora altre testimonianze scritte, tratte dal ponderoso archivio centrale dell’ANFE. Diventeranno, promette Calà, materiale d’archivio da condividere nei luoghi della Memoria in Belgio. Chiude poi il suo intervento ricordando Domenico Azzia, il presidente dell’associazione Sicilia Mondo, un pilastro del mondo dell’emigrazione, scomparso recentemente.
Chi scrive, nel suo intervento, ha ringraziato gli emigrati per il servizio e l’onore che hanno reso all’Italia con il lavoro, la serietà e la dignità dei comportamenti, con il prestigio e la stima guadagnati sul campo contro ogni pregiudizio. Il rispetto conquistato in anni di sacrifici, i successi in tutti i settori della società e in ogni Paese raggiunti dagli 80 milioni di emigrati italiani e loro discendenti - un’altra Italia più grande dell’Italia dentro i confini - sono il tributo più importante reso alla Patria, perché attraverso le loro testimonianza di vita i nostri emigrati hanno dimostrato quanto valgano davvero gli italiani, in talento, creatività e capacità d’impresa, ma anche in politica, nei Parlamenti e nei Governi, come il caso di Elio Di Rupo insegna, rendendoci orgogliosi della sua opera e dei traguardi raggiunti. Eppure, questo grande patrimonio di storia della nostra emigrazione è poco conosciuto, in Italia talvolta trattato con superficialità dalle istituzioni e dalla classe dirigente. Dunque, ogni iniziativa che tenda a valorizzare la Memoria è importante, come questo Anno commemorativo in Belgio. Ma sarà necessario che la storia dell’emigrazione italiana diventi materia da studiare nelle scuole italiane, che diventi patrimonio di conoscenza di tutti gli italiani, entrando finalmente nella Storia d’Italia. Questo deve essere l’obiettivo a cui tendere, anche per onorare degnamente la memoria delle 136 vittime italiane dell’8 agosto 1956 e di tutte le vittime della tragedia di Marcinelle. 
Il Consigliere Giovanni Maria De Vita nel suo intervento in rappresentanza del Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale per gli Italiani all’Estero, riprendendo l’intervento precedente, annota come non solo la classe dirigente abbia scarsa conoscenza della storia dell’emigrazione, ma il fenomeno è latamente diffuso. E’ una situazione che deve preoccupare. E deve essere risolta, facendo diventare la storia dell’emigrazione un patrimonio comune per tutti gli italiani. Dunque, ogni iniziativa utile a diffonderne la conoscenza è vista dal Ministero con interesse e favore. Come il progetto che fra poco verrà illustrato, con la realizzazione di una storia dell’emigrazione a fumetti per le scuole, è un’iniziativa importante che va in questo senso, avvicinando i ragazzi alla conoscenza del fenomeno migratorio italiano che per un secolo e mezzo ha toccato tanti milioni di connazionali. Il sostegno del Ministero vuole essere un segno di doverosa attenzione al progetto e alle sue finalità.
Napolitano invita quindi a parlare Gianluca Miccichè, Assessore all’Emigrazione e al Lavoro della Regione Sicilia. L’uomo di governo siciliano tratteggia con spunti molto interessanti la vicenda migratoria siciliana, quella storica e anche l’attuale, che porta all’estero tanti giovani per ragioni certamente diverse che nel passato. Illustra quindi le politiche che la Regione sta seguendo nel settore e, con riferimento ad un recente convegno tenutosi a Palermo con la partecipazione delle maggiori associazioni operanti nel campo dell’emigrazione, ha tenuto a ribadire gli impegni assunti in quella sede specie per ridare all’associazionismo l’attenzione che merita, in termini di risposte e di politiche mirate. A cominciare dalla Consulta dell’Emigrazione siciliana che presto sarà convocata, dopo anni di inattività. Con la stessa Consulta, e con le associazioni, sarà inoltre valutato come modificare al meglio la legge 55 del 1980, che regola il settore. Viva soddisfazione suscita l’intervento tra gli esponenti dell’associazionismo siciliano presenti.
Dopo gli interventi dei relatori l’artista Antonio Cossu, figlio d'un emigrato sardo, presenta il progetto dell'opera a fumetti “Storia dell’immigrazione italiana in Belgio”, illustrando gli studi dell’opera, i bozzetti, il linguaggio comunicativo, il più adatto ai ragazzi e giovani studenti. Sicuramente ha fatto colpo la qualità e l’espressività del disegno, cifra dell’artista e del suo valore. Il progetto si svilupperà nell’arco di due anni. Dopo la consegna dei riconoscimenti alle associazioni dell’emigrazione operanti in Belgio - una stampa autografa di Antonio Cossu con un’immagine che simboleggia l’essenza del progetto -, una festosa conviviale intrattiene i presenti. Alla mescita gli Alpini di Hornu e dintorni. Nel corso della serata sono stati raccolti fondi da destinare alle zone terremotate del centro Italia, colpite dai sismi del 24 agosto e del 26 e 30 ottobre 2016.
Sabato mattina, 17 dicembre, Tindaro Tassone ci porta con la sua auto a Marcinelle. Non può mancare l’omaggio alle vittime della tragedia. Gianluca Miccichè, Gaetano Calà e chi scrive compongono la delegazione. Alle 11 ci attendono alla miniera di Bois du Cazier. Arriviamo puntuali. Il cielo è plumbeo, sebbene non piova. L'accoglienza al Bois du Cazier la fa Alain Forti, Soprintendente (Conservateur) del complesso minerario ora diventato un grande museo patrimonio dell’Unesco. E’ grazie alle lotte degli ex minatori se la miniera di Marcinelle non è diventata un centro commerciale, come s'intendeva trasformarla. Dal loro impegno generò la proposta all'Unesco per il riconoscimento come Patrimonio dell'Umanità, concesso nel 2012. Il dr. Forti ci illustra la storia del tragico evento dell’8 agosto di 60 anni fa. Arrivati dai dintorni sono presenti anche alcuni esponenti dell’associazionismo italiano. Ci fermiamo davanti al Monumento alle vittime, un enorme parallelepipedo di marmo bianco con incisi i 262 nomi dei morti nel disastro. Lo ha donato la città di Carrara. C’è con noi in divisa da lavoro Uberto Ciacci, originario di Pesaro, ex minatore 81enne scampato per un caso al disastro. L’Assessore Miccichè, insieme alla delegazione, depone un mazzo di fiori tricolore, bianco rosso e verde, sotto il cippo marmoreo delle vittime. Uberto Ciacci ci racconta la miniera, le terribili condizioni di lavoro, il caldo infernale e il pericolo di grisù. Si scavava supini, talvolta in cunicoli non più alti di 40 centimetri. Ci guida, ci spiega tutte le fasi operative nella miniera, quando si entrava al lavoro e quando neri di carbone se ne usciva esausti a fine turno, avendo magari lavorato a più di mille metri di profondità. La visita è una via Crucis, con la stazione più dolorosa nella stanza del Memoriale, con le foto dei 262 minatori morti nella tragedia. Ce li indica, Urbano Ciacci, con le lacrime agli occhi. Ora, come altri suoi compagni dell'Associazione ex Minatori di Marcinelle, Urbano sente ogni giorno l'obbligo morale di guidare i visitatori, spiegare e raccontare, perché la terribile storia della tragedia della miniera di Bois du Cazier - una delle pagine nera dell'emigrazione - sia sempre presente nella Memoria degli italiani e dell'intera umanità. Mi fermo a meditare sulle vittime, sul tributo di 136 italiani, di cui 60 abruzzesi. Grande la dimensione del sacrificio abruzzese. Le vittime in gran parte originarie di Manoppello, Lettomanoppello, Tuttivalignani, Roccascalegna, Farindola. Una tragedia sul lavoro che denunciò la sommarietà se non l’assenza delle condizioni di sicurezza in miniera, la lacunosità della previdenza e dell’assistenza ai lavoratori, il vergognoso contratto tra i due Stati, per il quale i lavoratori destinati in miniera avevano rilevanza solo per assicurare le forniture di carbone all’Italia.
Quella data e quella tragedia sono ora riconosciute nella memoria collettiva del nostro Paese come Giornata del Lavoro italiano nel mondo. Tante cose sono cambiate da quegli anni per i nostri emigrati in Belgio. Oggi il figlio d’un emigrato abruzzese di San Valentino, in provincia di Pescara, è stato Primo Ministro del Belgio ed è una figura istituzionale di primo piano in Europa. Elio Di Rupo è motivo d’orgoglio per l’Italia e per l’Abruzzo, terra dei suoi padri. Nel locale delle testimonianze, adiacente al Memoriale, sono apposte molte targhe commemorative. Ci soffermiamo davanti a quelle apposte dalla Regione Sicilia, dalla Regione Abruzzo e dall’ANFE che tanto operò nei giorni della tragedia in aiuto alle famiglie delle vittime. La nostra visita si conclude, con un abbraccio collettivo e liberatorio dell’emozione. Ognuno prende la sua destinazione. Ho il volo per Roma a tarda sera, dall’aeroporto di Charleroi. C’è tempo di passare il pomeriggio con un coetaneo e compagno di scuola: Francesco, emigrato giovanissimo da Paganica (L’Aquila) qui nei pressi di Charleroi. Con lui e sua moglie Clelia raggiungiamo Dino e Giovina, altra coppia di amici aquilani. Si festeggia con un’agape fraterna il compleanno di Dino. Partito da Camarda, un paesino alle falde del Gran Sasso, Dino venne qui a lavorare. Fino a realizzare una catena di distributori di benzina “Scipioni” e un florido commercio di vari altri combustibili. Un’impresa condotta ora dai figli. Passiamo in allegria un magnifico pomeriggio. Poi il volo, quasi in orario. E l’arrivo all’Aquila, a notte inoltrata. Gelida, ma con un cielo puro, trapunto di stelle splendenti.

Le torri dei pozzi della miniera

Nella stanza del Memoriale delle vittime

Davanti al monumento alle vittime di Mrcinelle

Monumento alle vittime di Mrcinelle

Goffredo Palmerini- Elio Di Rupo

giovedì 29 dicembre 2016

TI ASPETTAVO - Pasquale Esposito




TI ASPETTAVO

 L'immagine può contenere: una o più persone, persone sedute e spazio all'aperto
Ti aspettavo
con le mani tese
come l'affamato il pane.
Ti aspettavo scrutando
in ogni dove pronto
per agganciarti
nel più tenero
degli abbracci.
Ti aspettava il mio tempo
immobile, paziente, dimesso e
con la sola speranza
che segnava le ore.
Ti attendeva il mio pensiero
che mentre godeva di te
e della tua sdegnosa sensualità si abbandonava
in un vortice di impeto
dolce e carezzevole
e si faceva poesia.
L'attesa fu vana
il giorno si spense
non mi arresi
ma PIANSI.

Pasquale Esposito
diritti riservati

WORDS ARE ALL AROUND - Saraswati POSWAL



WORDS ARE ALL AROUND
L'immagine può contenere: nuvola e cielo
Wind of words blow everywhere..
Founder of life oscillate the thoughts..
Give peace or support are words ..
Vibes of words stimulate our lives...
Words never get expired..
Words can never be burn in fire..
Words can help you making the empire..
Words may demolish all captured by running whole life..
Words can be soft and light..
Words can be harsh and vigorous..
Words work as explosive..
Words can create new gardens in the valley s of life...
Words are our real crops for health..
Words might work as toxicating diets..
Words attract you..
Words distracts you from others sight..
Bond of souls are words...
This is all what I derived...
Presented in front of all in my simple words...
Hope you all like..

@Saraswati POSWAL

THAT’S WHY SHE IS CALLED MOTHER - Shankar D Mishra



THAT’S WHY SHE IS CALLED MOTHER
 L'immagine può contenere: 1 persona, spazio all'aperto e sMS

When you do lose your temper
With or without reason on other,
Must not he appreciate but shower
On you hot, volcanic, boiling water.

But, entirely exceptional is your Mother:
Instead of being furious and vicious rather
She will humbly absorb, evaporate and cower,
Persuade you to please and placate further.
No one can so much patience gather
No one can so much pure Love render
No one can, in virtues, excel Her
No one can be so therapeutic, vulnerable and dear.
That is why She is called ‘Mother’ –
Made up of a Divine stuff, uncommon and rare!
@Shankar D Mishra 29.12.2016

martedì 27 dicembre 2016

Ayub Khawar - Membis Godwin Chukwukamma



Ayub Khawar
Can’t Be Compensated
It can’t be compensated,
O! Innocent heart,
In front of her radiant beauty,
Humbleness of love can’t think
To bend and bow now.
Is it insufficient
That forsaking myself,
I lost sheaves of so many days and nights
For her self-conceited beauty?
There were the sheaves
Of how many days
Which remained unfastened,
Only I heaped the sheaves
In the cellar of my bygone age,
In the urge of to feel the cool shade,
Of her thick lashes,
I didn’t heed, in which sheave,
How much beautiful days were packed,
And enchantress priceless morns of those days,
On which throne of wind settled,
Wearing fragrance of which flowers.
In vain desire
To paint her lips,
With the tinges of rain-bow,
I didn’t heed in which sheave,
Noontime of which day
How awakened impacts
Of its mystical mysteries,
In the wilderness of golden sunlight.
In the season of drying chilies on the roofs,
During echoing silence of the street,
Which moments smouldered,
I didn’t heed
Those who were lost,
In her fresh gusts of warm fragrance,
They weren’t aware
Which enchanting evening laments
For which firmaments.
Amid many anguishes,
There was a candle of desire,
In front of its glow,
Bending for a while
I just wanted to read interpretation of silent,
Static glow of a word, in her deceptive and ruthless
eyes,
And wanted to narrate a dream kneaded,
In fermentation of love,
And in this entire tale of defeat,
I didn’t heed
Which sheave bears funeral of which day.
Just now the cellar of bygone age opened,
I came into senses and realized that
By mixing into dust a long age,
The loss I earned cannot occur again,
It cannot be compensated.
O! Innocent heart,
In front of her radiant beauty,
Humbleness of love can’t think
To bend and bow now.

sabato 10 dicembre 2016

NAVEGANTES DE AMOR - Maria Cerminara





NAVEGANTES DE AMOR
 

Tu eres mi mar
Y yo barca navegante
Contemplarte bajo
La luz de las estrellas
Ese es mi destino
Tu cuerpo y el mío
Se funden con abrazos
Al despertar saber que
Solo la luna es testigo
El amanecer espera
entre risas y besos.
Placer de navegar
En tus mares
Bucear en tu ser
Descubrir tus virtudes
Soñar en un viaje
Maravilloso sin retorno
Sin pedir nada a cambio
Dónde todo es posible .
Navegantes de amor
Eso somos en un
Mar lleno de ternura
Dónde se ahoga el amor
Para complacer los deseos .
© MariCer
10-12-2016
Argentina
Foto web.