lunedì 10 dicembre 2018

Poesie e racconti italiani, vincitori alla VI Edizione del Premio "Città del Galateo"


POESIA ADULTI A TEMA LIBERO  
PREMIO ECCELLENZA
LE PIETRE NON PIANGONO – ANTONELLA GIORDANO   

LE PIETRE NON PIANGONO (*)

Le pietre non piangono
trafitte nel profondo,
spenta è la voce
del giusto
dispersa dall’urlo
di Caino.
Sete di giustizia
nell’animo di chi
vorrebbe cancellare
le vergogne del mondo.
Non scavate pietre
e tumuli di morte
che riempiono il niente.
Gli alibi incoerenti della Storia,
seminatori di odio e violenza,
tremano all’annuncio
che la voce del giusto
non è morta.

*A mio padre, vittima del dovere


CHI SEI – MARCO AMBROSI    

CHI SEI 

Dolce presenza terrena
che di purezza vesti la nuova luce,
memoria
d'inganni mancati assorbiti dal tempo.
Lontana è la figura errante
che più non teme le proprie scelte,
peccati
che sorbirono in fretta
la primitiva sostanza
impartita come legge e naturale forza.
Tenero è il mestiere
di cacciatore di anime nuove
custode del lavoro
di quell'Angelo armato di frecce.
Membro graduato oppure vittima
nell'esercito del peccato,
in un sentimento eterno
più prossimo al vero,
insaponato dalla voce
che la pelle riconosce
come tenero amore.
Tu vergine raggio lucente
ricca di capoversi e suoni,
gentile nel cuore
morbida nel verbo
stampi brividi come perle,
negli attimi di vita
segnati da rugosa solitudine,
ormai prossima alla parola fine
nel traguardo raggiunto,
da un ardita parentesi
in questo secondo tempo.

IL CIELO È BASSO – NUNZIO BUONO

IL CIELO È BASSO 


Così l'autunno.
L'ombra dissolta dai rami
lascia spazio al sole basso delle case.
Le voci dell'estate sui gerani sfumano nel grigio.

La nebbia tutto veste nel chiaro della sera.
Una donna chiama un raggio di luce tra le persiane.
La notte ha spento il giorno sulle ultime foglie.

Mi spoglio
al silenzio della tua voce.
Il cielo è basso al mare.

Dove sono andate le poesie
quelle, che si scrivevano col sostantivo e il verbo
e la consonante tra le vocali.

Ora, che l'apostrofo dell'amore conta altre sillabe
e le nostre sono voci lontane.



PODIO

1.     . . E MI MANCHI – ENRICO DEL GAUDIO

. . . E MI MANCHI 

E sono qui
tra queste mura erose dal silenzio,
scrostate dalla polvere del tempo,
tra scrigni di ricordi mai sopiti
scanditi sul mercurio arrugginito
dove lancette d’orologio a pendolo
non segnano le ore, né la vita
vittime dell’incuria e il gelo dentro.
Lo stesso che mi regna dentro il cuore
quando mi aggiro tra la triste casa.
Ancora s’ode, oh madre, la tua voce
in queste stanze senza più calore.
Mi metto alla ricerca del tuo viso,
ascolto il ticchettio dei passi tuoi,
un soffice strusciare di pantofole
mi cigola alle orecchie, si fa verbo:
“Vieni figliolo, è pronto  il tuo caffe”.
Par di vederti, oh madre mia dolcissima.
Affiora tra le pieghe di una ruga
la tua rassegnazione conciliante
alla sconfitta eterna della vita, 
al fatuo destino che fu avaro
con te, oh madre, unico mio bene.
Ti scorgo alla finestra mentre cuci
in una piega d’un tramonto opaco,
nell’esile barlume di candela
per risparmiare un poco d’energia
quando non c’era luce a sufficienza.
Tra i pianti tuoi celati e i tuoi silenzi
che come tuono balzano nel petto,
o come quando, attenta a preparare
il desinare del frugale pasto
del mezzodì, facevi sacrifici
per mettere alla tavola quel poco
che permetteva a un figlio di sfamarsi.
Ti prego, squarcia , oh cielo questo cuore
e portalo con te, là, tra le nuvole,
prendi tutto l’amore che c’è dentro
e recalo da lei, da mamma mia,
digli che questo figlio sempre l’ama
e che il suo ricordo mai morrà.

2.     QUELLA NOTTE – ANNA MARIA DEODATO 
 
QUELLA NOTTE

Non ti vedevo, ma eri lì con me,
la tua luce mi sfiorava
quando all’urlo di madre
rispose il silenzio.
Sentivo il tuo sospiro
quando gli inflissero le piaghe,
senza clemenza spezzarono il suo cuore.
Non ti vedevo, ma eri lì con me
a soffrire l’assenza
e raccogliere il lamento
in quella notte di luna
che mi rubava il sole.
Eri la voce, l’unica che confortava
quando il dolore era una finestra
spalancata verso il nulla,
un’angoscia che pervade,
un aspro deliquio che annienta
e spegne il verbo.
Non ti vedevo, ma eri lì con me,
mi sei venuto accanto
quando udii il suo pianto
e la sua voce spezzata 
era il belato di agnello senza madre.
Ti ho sentito, sai,
quando il mio cuore materno cedeva
e il mondo si allontanava.
Eri vicino a me, unito in preghiera
di madre senza più il suo seme,
svuotata di abbracci, stordita
con occhi dispersi all’orizzonte.
Mi hai trovata, sperduta tra quei volti,
tanti, distanti, assenti,
che allentavano la presa della mano
sull’orlo dell’abisso,
quella notte.

          A tutte quelle madri che devono sopravvivere alla morte dei propri figli…


3. DIECI SIEVERT (walking ghost) FUKUSHIMA 2011 – MARCO MARRA   

DIECI SIEVERT
(walking ghost)
Fukushima 2011


Sprigiona calde esalazioni malate
questa desolata terra di cobalto.
Ancora un passo, poi mi accascio al suolo
e ascolto il rantolo del mio respiro
sempre più incerto e stanco;
uno spasmo.
Avverto il collo gonfiarsi, le vene dilatarsi,
mentre un rivolo di sangue acre e ferroso
scorre lento e inesorabile sul mio viso;
è un attimo eterno:
il dolore mi stravolge gli occhi, spietato,
affinché io veda meglio
ciò che è rimasto di questa zona morta.
Ma posso sentirlo, vivido,
il mio anelito d’amore per te! Terra mia!
Avverto il gelo pungente della tua acqua tersa,
l’umidore immacolato delle tue praterie…
Gabbiani.
Volano fieri, riempiendo il cielo
con suadenti alchimie di stridii e battiti d’ali;
una pioggia di vessilli copre il mio viso.
Si rivela fatale
per me che ne conobbi il candore
in meravigliose epoche inviolate;
nella tranquillità innaturale
sento la mia presenza farsi assenza.
Ancora un respiro, poi chiudo gli occhi…
E non mi importa che sia per sempre.

Ex aequo

3.     L’OLTRE ALL’ORIZZONTE – DOROTEA MATRANGA

L’OLTRE ALL’ORIZZONTE 

Se mi volto indietro.
Se chiudo gli occhi
dei narcisi avverto la presenza,
della verità sento il profumo.
La mente vede il colore,
nella bellezza del sogno il respiro
del genuino sapore.
Se apro gli occhi, il sogno svanisce.
Scorgo solo rovi intorno.
Svettano le spine tra ciuffi di giunchiglie
sul margine del greto.
Finge la verzura
apparente primavera.
Il dolore genera pietre inerti.
Del giorno antico
ferita mai guarita.
Sempre giovane amarezza.
Il fiore della vita cerca
una via d’uscita dall’inganno.
Fiacco scheletro sopravvive al tempo,
alle intemperie, agli avversi numi
Ricordo mai sopito.
Non resta che guardare
L’Oltre all’Orizzonte.


                              MENZIONE  D’ONORE

IL VENTO DELLA VITA – CESARE NATALE
    
IL VENTO DELLA VITA 
Soffia il vento fra i rami della vita
accarezzando le voci, i volti, le anime.
Boccioli …che solo l’amore sa generare…
diventeranno foglie di un albero senza tempo
che come figlie, un giorno, abbandoneranno il nido per lasciare
impronte indelebili… che solo i ricordi sapranno ritrovare.
Volti in bianco e nero ,scolpiti su fotografie che il tempo
non potrà cambiare, diventeranno il viale da ripercorrere
quando la nostalgia ti farà voltare per guardare il tuo passato.
Ci saranno lacrime sulle quali navigherai affidandoti al vento…
a volte, l’orizzonte ti sembrerà così lontano da farti tremare,
ma mai ci sarà una tempesta cosi forte
che potrà sciogliere il nostro abbraccio.
Soffia il vento fra i rami della vita,
a volte così forte da farti  perdere i ricordi,
buchi neri sui quali cerchi di arrampicarti per non scivolare,
per non perdere te stesso dal riflesso
di uno specchio sempre più lontano.
Le fotografie che il tempo scatterà,
saranno quel viale dove potrai camminare
per risentire i profumi di giorni conservati nella tua anima,
momenti custoditi nel cuore che niente potrà cancellare.
L’amicizia, i sorrisi, un abbraccio… saranno gli scogli
che ti proteggeranno da quelle onde
 che invano cercheranno di portarti via.
L’amore… sarà il faro che non ti farà mai
 annegare in un mare di solitudine.

L’UOMO CON I GIRASOLI NEGLI OCCHI – OFELIA CIMMINO
  
L’UOMO CON I GIRASOLI NEGLI OCCHI 

Strappai dai tuoi occhi
la malinconia,
e ci seminai campi di girasoli,
i verdi chiaroscuri ed i bellissimi cipressi
che tanto ami,
semplici, onesti e retti
come il tuo capo orgoglioso.
E come ogni alba diventa
tramonto,
ogni girasole sorride e poi muore,
ma io, mille volte ti amerò
e ti amerò ancora
col più semplice e radioso stupore.

LA MIA PREGHIERA (Oltre l’orizzonte) – DONATELLA PIRAS

LA MIA PREGHIERA 
(Oltre l’orizzonte)

Ero una foglia rossa, caddi a settembre
sotto il cedro del Libano fluttuavo
mio figlio suonava il pianoforte
forse era lui, o forse era la morte
che invano, mi cercava in fondo al parco.
Ella frugava, voleva la mia mano
quando alle sette il gallo ormai taceva
non ero già più lì, ma assai lontano.

(dispettosa rido, dietro il tronco del cedro del Libano)

Sono salita dove la musica è silenzio
Luce non luce mi illumina da dentro
Inediti profumi, come incenso…
Sono onniscienza son l’Uno, son l’Universo
Che fate voi, piangete? Non dovete!
Non dovete…
Se solo vedeste quel che vedo io
se solo provaste l’abbraccio di Dio
non più sareste salici piangenti.
Lasciate che io torni a riposare
che prima vado, prima potrò tornare.
Non più lacrime, cadutomi è il fardello
Ma qualcuno ora, chiuda queste imposte
che cigola di vento, il mio cancello

PETALI PER VOI – UMBERTO CORO

PETALI PER VOI

Ho con me stasera
una margherita
e prima che sia appassita
la voglio sfogliare
Un petalo a mia madre
che mi ha saputo allevare,
ma soprattutto perché
mi ha dato una vita da guardare.
Questo grosso lo do a te Papà
perché rassomiglia tanto
alle gocce di sudore che hai fatto per me.
Un petalo a te amore
non so dirti altre parole
più che questa, Amore.
Un petalo a voi
che siete i miei migliori amici.
Uno lo vorrei dare anche a te nemico
perché tu possa diventare
Il mio migliore amico.
Un petalo agli animali
perché alle volte sono loro gli umani.
Il petalo più bianco ai morti
perché dormano sempre puri e senza rimorsi.
L’ultimo lo lascio nel mio libro
affinché io mi ricordi
di questa Margherita che vi ho spartito

PICCOLE ALI – CARMELA LARATTA 
  
PICCOLE ALI.

Piccole ali provvisorie, questi occhi,
fruganti in territori già vissuti
per scoprire segreti d’ immortalità.
Pianeti da scoprire, impotenti,
(nessuno ne conosce il nome),
da quest’isola in sordina che sta, e sosta,
senza scampo, come rose ammassate ai piedi
che lasciano il ramo
-le guardiamo diventare colore
dopo tanta placida attesa.-
Perché rannicchiarsi ai cantucci di anni
che contano quanti passi
sverna il vento?
Che senso ha studiare la parte
in città di lupi che saltano il sole,
ingrandendo tane, trionfi, piumaggi?
Desideri di vittorie scriverebbe questa vita,
se potesse parlare:
sul tempo, l’infanzia di vetro, e la vecchiaia,
e poi sonagli, foto di famiglia,
registri incompleti, panni sporchi,
farfalle bianche, macerie, ricordi da puntellare
(e le bocche arse
 a bagnarsi d’amore mai conosciuto).
Inutile urlare: svegliarsi dal sogno non fa più rumore
di una goccia che annega
in un vaso già pieno.
Eppure, vorrei dirti che, per un attimo,
qualcuno ha profumato il mio buio,
musicandomi raffiche
come respiro da innestare.
Eppure, vorrei dirti che, per un attimo
qualcuno mi ha scaldato una carezza
nel crepuscolo, all’improvviso,
e mi ha sentito suonare come sapevo,
come potevo…
Non si conosce mai la partitura completa
prima dell’applauso finale.
La nota è qui. Adesso.
Appesa a questo bianco…

QUANTO DI PIU’ CARO – COSETTA TAVERNITI
     
QUANTO DI PIU’ CARO 

Non cambierei me stessa
con null’altro al mondo,
se non col mio cuore
che batte desideroso
di rincorrer le emozioni.

Se non con i miei occhi,
assetati di albe nuove e primavere,
aperti sull’imponderabile futuro,
e pur spenti al sangue e alla violenza.

Non cambierei me stessa
se non con le mie mani
aperte e affaccendate su fogli sparsi
a catturare parole per nuovi versi,
a rammendare, col filo dell’istante,
il fine macramè di ieri alla tela del futuro,
per non sminuire le vestigia della storia.

Passi leggeri mi guidano
a ripercorrere il sentiero dei ricordi,
ridipingendo l’incanto delle calde stagioni,
tra le mani i frutti di quei semi
ch’ella m’ha guidato a sotterrare,
e mi ritrovo paga nell’oggi
con quanto di più caro
mia madre m’ha donato.

SENZA NESSUNA FINE – ANDREA TALIGNANI

SENZA NESSUNA FINE 

 Io e te cosa siamo diventati,
 eravamo cenere nera, sparsa fra la strada
 da cui siamo risorti come una Fenice
 per rifiorire nel nostro mondo di colori.

 Siamo l'acqua ed il fuoco nella tempesta estiva
 ci accendiamo e spegniamo ogni momento
 togliendoci il respiro ma...scatenando umori
 che solo al nostro sguardo possiamo comprendere.

 Ogni parola ha il possesso del sapore di te
 ed io...beh io lo sento dentro di me,
 sento crescere forte questo intenso suono
 che mi ha rapito, accrescendo maggiormente all'infinito.

 Siamo l'aurora nel suo glaciale splendore,
 scioglie e illumina d'argento le nostre anime,
 tu lo sai, te lo voglio dire: noi staremo sempre assieme
 quest'aria...ma specialmente questa vita ci appartiene.

 Acquisteremo il tempo, nello scorrere di ogni singolo secondo,
 ribalteremo le lancette, per guardarci ancora una volta
 io e te, fissi negli occhi a dedicarsi
 tutto quello scorrere che ora ci appartiene.

 Sussurrami....sussurrami quello che vorresti sentirti dire urlando,
 tu hai sciolto i nodi che legavano la mia anima,
 ora è libera d'essere rapita da te...così'
 senza nessuna fine voleremo nel cielo
 e dal nostro alto, veramente urleremo.


SOGNI PROIBITI – GIULIA PALAMA’
Sogni proibiti
Io nacqui
nella terra del Sole,
ove Regina
s'ammanta di rosa,
l'Aurora.
Questa terra
vestita d'argento,
lambita dal mare
che l'azzurro
infrange le onde
e le vele
si lasciano baciare
dal vento.
Questa brezza
leggera
che t'accarezza
e un brivido dolce
ti dona.
Questa terra
inondata dal sole
e l'Aurora ridesta
Giunone
che raccoglie le vesti
e si dona procace
e Bacco che brinda
alla vita.
Questa terra
di messi vestita,
di abbondanti raccolti
fa dono.
Oh terra del Sole
fammi cullare
dal mare
e Morfeo mi addormenti
in un letto di rose.
Oh magica terra
di luce
metafora della vita,
lasciami sognare
ancora!

SOLO TESTIMONE – BRUNA CAROLI

SOLO TESTIMONE

Ama l’uomo così com’è
ma non toccarne l’anima.
Fiorir lascialo
come arbusto di macchia,
solitario, se pur amato
non colto, osservato…
ché la pesante mano della passione
devia, modifica, plasma e ricrea.
Se vuoi goder
dell’autentico profumo di ciò che è
limita il tuo intervento,
sii brezza rapida e leggera nel tocco,
sguardo sfuggente
qual sulle cose luna calante,
appen’udibile mormorio
sensazione, percezione
non senso vivo, non tempesta
ma goccia di rugiada.
Sii sempre accorta, veloce e silente
a piccoli sorsi
con passi cauti e minuti.
Sfiorate van le gioie,
da lontano colto
il profumo.
Ché più d’appresso sei
e più sommovi.
Non interferir,
tu soltanto sii…
 testimone!

UN LIBRO – ALFONSO OTTOMANA
  
UN LIBRO 

E’ notte fonda
un vento gelido urla per le vie.
Poche stelle in cielo
a guardia di una speranza.
Un bimbo perso nei propri sogni
sfoglia un libro, scivola in quelle pagine
in quei mari prima delle foreste,
cammina per antichi sentieri
incontra la vita.
E’ tardi ma il vecchio faro
lo chiama e le navi dei pirati
in rada festeggiano la luna.
Lettere come lanterne
brillano nella stanza,
proiettano ombre danzanti
tutt’intorno.
Torno spesso da quel bimbo
ai suoi occhi vivi
lo sento parlare con il silenzio
raccontargli di me.
Così prendo quel libro
un po’ ingiallito dal tempo,
scanso la polvere sul cuore
e torno a leggere in sua compagnia.


VOGLIO LA PUGLIA – FRANCESCO EPICOCO   

VOGLIO, VOGLIO, VOGLIO LA PUGLIA

Voglio una Puglia libera dal male,
tutta Murgia e litorale.
Voglio città di bianco calcare
con porte e finestre aperte sul mare.
Voglio una terra rossa
piena di masserie alla riscossa.
Dappertutto voglio trulli
con tanto di pizzica e vari trastulli.
Mi voglio svegliare nel Salento
accarezzato dalla brezza,dal sole e dal vento.
Voglio mangiare orecchiette a volontà,
pesce fritto e baccalà!
Pizza e fichi che bontà
con aria pura in libertà.
Per ricordare il pane duro
voglio passare dal tratturo.
Pescatori e contadini
li voglio tutti miei concittadini.
Voglio vedere il mandorlo sempre in fiore
e l'ulivo senza una lacrima di dolore.
Puglia mìa,
che nostalgìa!
Sei stata il primo amore
sempre ti porterò nel cuore.
Mai più scorderò grotte, scogliere,
e i campi di grano del Tavoliere.


POESIA ADULTI IN VERNACOLO A TEMA LIBERO
PREMIO SPECIALE FUORI CONCORSO
CAL DÒNI – QUELLE DONNE – LORENZO SCARPONI         
   Cal dòni

La è stàeda sèmpra acsè
Da qvand ch’l’è e’ mònd
Alè e zéti
Al s’è ‘rvólti, dói, l’è ‘rvàt e’ feminìsmo ( in questa riga risata)
mo agl’è ancòura dòulzi e tèndri; al dòni
mo li n fa ‘na póiga
qvant ch’l’è òura da difènd i su dirét
ch’u j è, chi è ch’u i munta sòura
agl’à de’ curag; al dòni
qvand ch’al po’ capàe da stàe da parlòuv
fénd ad màench d’uniòun finta
par mantnòi e’ própi rispèt
agl’è fórti; al dòni
qvant ch’al crès i fiul da par lòuv
sénza bà: che àenca si j è
dal vólti l’è c’mè che si ni fós
qvant ch’al supórta umigliaziòun e viulénzi
al travérsa la tèra e’ màer
par lasàe ‘na vóita ad tribulaziòun e miséria
invujàedi da chi ch’u i dà dla càerna ad lódla
agl’è fórti, agl’à de’ curag
agl’andarà ancòura avàenti; a dunàe vóita
s’la speràenza d’un mònd ch’e’ sia mèi ad qvèl ch’lè
ahah… ad dòni…
u i n’è òna ch’a la ò cnuséuda da póch
l’è ‘na gran dòna
a n si sém ancòura zcòurs
mo la m’à zà impataché la m’à  rubé e’ cór
la n’à ancòura vért j ócc
ch’a i dégh: Giorgia… sono il nonno!

Quelle donne

È stata sempre cosi / da quando è il mondo / lì e zitte / si sono ribellate, di, è arrivato il femminismo (detta con risata) / ma sono ancora dolci e tenere; le donne / ma non fanno una piega / quando è ora di difendere i loro diritti / che c’è chi è che li calpesta / hanno del coraggio; le donne / quando possono scegliere di stare sole / facendo a meno di un unione finta / per mantenere il proprio rispetto / sono forti, le donne / quando crescono i figli da sole / senza babbo: che anche se ci sono / è come se non ci fossero / quando sopportano umiliazioni e violenze / attraversano la terra il mare / per lasciare una vita di tribolazioni e miseria / invogliate da chi da loro carne di allodola (false promesse) / sono forti, hanno del coraggio / andranno ancora avanti; a donare vita / con la speranza di un mondo che sia meglio di quello che è / ahah… le donne… / ce n’è una che l’ho conosciuta da poco / è una gran donna / non ci siamo ancora parlati / ma mi ha già preso il lume della ragione mi ha rubato il cuore / non ha ancora aperto gli occhi / che le dico: Giorgia… sono il nonno!
       


PREMIO ECCELLENZA
GIGGINO – LUIGINO – VINCENZO CERASUOLO  
 


A GUAGLIONA PUVERELLA – LA RAGAZZA POVERA – FAUSTO  MARSEGLIA  
  ’A GUAGLIONA PUVERELLA      
  (Testo in vernacolo napoletano)                                                                         
Fòr’â chiesia d’’o Ggiesù Salvatore                                          
ce steva na guagliona accucciuliàta                                               
ca se truvava lla a tutte ll’ore                                                         
sempe cu ’a faccia triste e scunzulata.                                           

Passava ’o tiempo stennenno ’a manella                                     
cu na vesticciolla meza stracciata                                                   
speranno d’avè quacche munetella…                                        
ma le devano a stiento na guardata.
Tutt’’a gente ca le passava nnante                                          
jeva sempe ’e pressa e se scanzava                                             
lassanno chella mano vacante                                              
ca ’a guagliona guardava e rinzerrava.                                           
Se magnava sulo tozzole ’e pane                                                   
avute a chi non sapeva che farne                                                 
ca spisso sparteva pure cu ’e cane,                                                
senz’assapurà maje nu poco ’e carne.                                          
Pure a vierno, ncuollo sulo na sciarpa,                                      
c’accussì nun puteva stà nisciuno,                                                
teneva ’e piède scàuze senza scarpe                                            
cu tanta chiaje, ferite e gelune.                                                     
’A faccia scavata, ll’uocchie ’nfussate,                                         
’o cuorpo ca pareva nu stecchino,                                                
’a capa ncopp’ê denòcchie calata,                                            
se truvava lla già a primma matina.                                           
Nu juorno s’accosta na signora                                                     
ca piglia ’a mana stesa d’’a guagliona,                                         
l’aiùta a s’aizà ’a terra con amore                                                  
e le dice: “’E stà cca nun è stagiona.                                           
Lassa stu posto ca è friddo e gelato.                                         
Viene cu me ca te truvarraje buono.”                                      
E s’’a purtaje scarfannola cu ’o sciato                                          
mentre facev’acqua, lampi e tuone.                                            
Nisciuno ha visto cchiù chella criatura.                                       
Ma ce sta chi l’ha ricunusciuta
dint’’o quatro d’’a chiesia nfaccia ô muro                               
quanno nziem’â Madonna se n’è ghiuta.

     LA RAGAZZA POVERA 
       (Versione in italiano) 
       
Fuori la chiesa del Gesù Salvatore     
ci stava una ragazza rannicchiata         
che si trovava là a tutte le ore
sempre con la faccia triste e malinconica.
Passava il tempo stendendo la manina
con un vestitino in parte strappato
sperando di ricevere qualche monetina…
ma le davano a stento un’occhiata.
Tutta la gente che le passava davanti
andava sempre di fretta e si scherniva
lasciando quella mano vuota
che la ragazza guardava e richiudeva.
Mangiava solo residui di pane
ricevuti da chi non sapeva cosa farne,
che spesso divideva anche coi cani,
senza conoscere il sapore della carne.
Anche d’ inverno, addosso solo una sciarpa,
che a quel modo nessuno poteva resistere,
teneva i piedi scalzi senza scarpe
con tante piaghe, ferite e geloni.
La faccia scavata, gli occhi infossati,
il corpo sembrava un piccolo stecco,
la testa sulle ginocchia chinata,
si ritrovava là già di buon mattino.                    
Un giorno si avvicina una signora              
che prende la mano tesa della ragazza,      
l’aiuta ad alzarsi da terra con amore
e le dice: “Di stare qui non è stagione.
Lascia questo posto che è freddo e gelato.                         
Vieni con me che ti troverai bene”.
E se la portò riscaldandola col fiato
mentre infuriavano pioggia, lampi e tuoni.
Nessuno ha più visto quella creatura.
Ma ci sta chi l’ha riconosciuta
nel quadro della chiesa appeso al muro
quando è andata via con la Madonna.
 
PODIO

1.        PPE NNU SCORDE’ARI – PER NON DIMENTICARE – ANGELO CANINO 
PPE NNU SCORDÈARI
Sbruffa nnu trenu, càrricu e genti,
u fumu è nnìvuru, e chilli carbuna,
va ppe ssa strèata c’oramèai tena a menti,
va ccu llu sudu, va ccu lla duna.
Si sìantini grida, miscchèati ccu chjanti,
e ùamini, fìmmini, pìcciudi e rranni,
strazijèati d’animi, i cori affranti,
quanni arrivèamu?, dduvi?, quanni?.
Doppi dua jùarni u trenu rallenta,
nu cancìallu s’apra e, trasutu si ferma,
“Arbeit Macht Frei” c’è scrittu, ma menta,
chissu è llu postu chi ppe sempri si dorma.
Spoglièati e di mmrogli, e d’affetti privèati,
nu nùmaru allu postu e du numu e ccugnumu,
cumi i voji e lli vacchi, i vrazza timbrèati,
libertà e speranza, jettèati a nnu jumu.
Munzìalli e scarpi, e riroggi e occhjèadi,
intra i càmmari a gas ammassati, aspettanni,
avanti i barracchi, u sangu a ccanèadi,
cuntìanti i surdèati, cantanni e ffischcanni.
Alli pìadi zùaccudi e dignu ppe llu caminu,
senza capilli alla cheapa, tutti carusèati,
ppe ssa pòvara genti è ssignèatu u destinu,
mùarti sfissijèati, mùarti ammazzati.
I quatrèari e di pìadi pijèati e donnudijèati,
prima e ammazzèari facìani a scommessa,
i budàvani all’aria e benìani sparèati,
vincìa chini sparèava cchiù mpressa.
Na petra ppe ccoru e ugne ssurdèatu,
senza pietà ppe bìacchji e gguagliuni,
un ci nn’era d’unu, senza ssu pecchèatu,
u diàvudu ncùarpu, ràggia e dejuni.
Chillu ch’è ssuccessu, un si po cancellèari,
ssa pàggina brutta, ppe ssempri rimèana,
ssa brutta pàggina no cchiù è dde ritornèari,
razzi e ccuduri diversi, pijàmini ppe lla mèana.

PER NON DIMENTICARE

Sbuffa un treno carico di gente,
il fumo è nero, di quei carboni,
va per la strada che ormai tiene a mente
va con il sole, va con la luna.
Si odono grida mescolate con pianto,
di uomini, donne, piccoli e grandi,
straziati gli animi, i cuori affranti,
quando arriviamo?, dove?, quando?.
Dopo due giorni il treno rallenta,
un cancello si apre, entrato si ferma,
“Arbeit Macht Frei” c’è scritto, ma mente,
questo è il posto che per sempre si dorme.
Spogliati dei vestiti, degli affetti privati,
un numero al posto del nome e cognome,
come i buoi e le mucche, le braccia timbrate,
libertà e speranza, buttati in un fiume.
Cumuli di scarpe, di orologi e occhiali,
nelle camere a  gas ammassati, aspettando,
davanti le baracche, il sangue a fiumi,
contenti i soldati, cantando e fischiando.
Ai piedi zoccoli di legno per il cammino,
senza capelli in testa, tutti rasati,
per questa povera gente è segnato il destino,
morti asfissiati, morti ammazzati.
I bimbi per i piedi presi, e dondolati,
prima di uccidere facevano la scommessa,
li lanciavano in aria e venivano sparati,
vinceva, chi sparava per prima.
Una pietra al posto del cuore di ogni soldato,
senza pietà per vecchi e bambini,
non c’è n’era uno senza peccato,
il diavolo in corpo, rabbia di leone.
Quello che è successo, non si può cancellare,
questa pagina brutta, per sempre rimane,
questa brutta pagina non più deve ritornare,
razze e colori diversi, prendiamoci per mano.

2.        NUN CE PENZA’ – NON CI PENSARE – ALFONSO GARGANO   
NUN CE PENZÀ  
L’ato juorno nun me pareva overo,
Forse è stata l’aria ‘e primmavera!
Ntramente steve a ‘o barcone affacciato
Muglierema è venuta e m’ha abbracciato
Po m’ha pigliato stretta ‘a mano
E m’ha purtato ncoppo ‘o divano.
C’aggio ditto: ma nu tenimmo chiù l’età!
M’ha ditto: Statte zitto, tieneme stretta e nun ce penzà.

TRADUZIONE
L'altro giorno non mi sembrava vero
Forse è stata l'aria di primavera
Mentre stavo al balcone affacciato
Mia moglie è venuta e mi ha abbracciato
Poi mi ha preso stretto la mano
E mi ha portato sul divano
Le ho detto: ma non abbiamo più l'età
Mi ha detto: stai zitto, tienimi stretta e non pensarci.
  ex aequo

CHELL’OMBRA DINT’ ‘O SCURO – QUELL’OMBRA NEL BUIO – CIRO IANNONE  
CHELL’OMBRA DINT’ ‘O SCURO

N’ombra se move chiano dint’ ‘o scuro 
sient’ nu musso ca s’azzecca nfronte
jesce d’ ‘a casa quanno è ancora notte
po se fa ‘a croce primm’ ‘e nzerrà ‘a porta
‘O juorno ‘o cirche ma nun ‘o truove maje
e s’arretire ‘a sera quanno accumpare ‘a luna
si pure p’ ‘a fatica se sente stanco e acciso
t’astregne  mbracce e te fa nu surriso
‘O Pate
N’omme ca soffre ma  nun dice niente 
ca si se sente male nun t’ ‘o fa maje capì
se gonfia ‘o pietto pe comme staje criscenne
pe isso tu si 'a cchiù bella cosa 'e copp' 'o munno
St’omme è cuntento quanno tu si  felice
le ride ‘a faccia è ‘o core sultanto si te vede
è chillo ca te vase ‘a dint’ ‘o suonno
e  nun ‘o ffa pecchè se mette scuorno
‘O pate
É na canzone ca po cantà si pure nun tene 'a voce
è chella goccia ca te buca ‘e pprete
ca chianuo chiano senza fa rummore
te porta sempe appriesse dint’ ‘o core
Ma comme tutt’‘e cose già se sape 
‘o tiempo passa pure pe chi è pate
si ogni scarpa nova addiventa  nu scarpone
ma pe isso tu sarraje sempe ‘o Guaglione.
Quanno s’è fatto viecchio nun ve scurdate
‘e tutt’ ammore ca st’omme  v’ ha dato
dicite sti parole  quanno v’arritirate 'a sera
ne so sultanto quatte  parole, Papà te voglio bbene!

 QUELL'OMBRA NEL BUIO
 Un ombra si muove piano nel buio
senti le labbra che si attaccano alla fronte
esce di casa quando è ancora notte
poi fa la croce prima di chiudere la porta.
Il giorno lo cerchi ma non lo trovi mai
e rientra la sera quando spunta la luna
anche se per il troppo lavoro è stanco
ti stringe fra le braccia e ti fa un sorriso
Il Padre
Un uomo che soffre ma non si lamenta
e se si sente male non te lo fa mai capire
si gonfia il petto pe come stai crescendo
per lui  sei la più bella cosa al mondo
Quest'uomo è contento quando sei felice
gli ridono gli occhi e il cuore solo se ti vede
è quello che ti bacia mentre dormi
ma non lo fa perchè si vergogna.
Il Padre
È una canzone che puoi cantare anche senza voce
è quella goccia d'acqua che ti fora una roccia
che piano piano e senza fare rumore
ti porta con lui sempre nel suo cuore
Ma come tutte le cose già si sa
il tempo passa pure per chi è padre
se ogni scarpa nuova diventa uno scarpone
per lui tu resterai sempre un ragazzo
Quando diventa vecchio non lo dimenticate
tutto l'amore che quest'uomo vi ha dato
ditegli quando rientrate la sera

3.        NU’ JUORNE ‘E LIBBERTA’ – UN GIORNO DI LIBERTA’ – GENNARO GRIECO
NU' JUORNE 'E LIBBERTÀ  

Caro m'hê custato, stù juorne 'e libbertà,
'a nu' mumento 'a n'auto...
m'aggio avuto appriparà.
Mentre venevo ccà,
'a dint' 'a fenestella d' 'o blindato...
aggio guardato 'o mare 'e Napule,
penzavo a ttè, papà;
chiagnènno mille cavallune 'e lacreme.
Manco mezz'ora fa m'hanne avvisato,
ca' 'o tiempo t'hâ dato
stà scadenza 'a rispettà.
Sagliènne 'e grare 'e chest'anema sola...
'e desiderje 'e creature bussavene 'o core.
Perdoneme papà, si so' sagliùte ammanettàto,
pur' i' me metto scuorne;
 chisto è 'o prezzo ca' se pava...
quanno sì pregiudicato.
Songo 'a sconfitta d' 'a famiglia,
pe' ffine 'e frate mieje m'hanne scanzàto;
manco na' pacca 'n'coppo 'a spalla,
nun sia maje,i' songo o figlio carceràto.
Te vulèsse accarezzà, mannaccia stì manètte;
manco chesto pozzo fa,
arreposa 'o core e 'o ciato,
nun c'hâ faje manco â parlà.
'O ssaccio, nun te preoccupà,
sì cu' 'o rimorso staje penzànno...
ca' so' passate quarant'anne,
è nun sì maje venuto â me truvà.
Si liegge 'n'faccia 'e mura 'e chistu core...
ncè truove scritto pe' ttè chello ca' sento,
e sì chiude ll'uocchie nu' mumento...
cu' 'e mane 'o può tuccà stu' sentimento.
Ma i' parlo e nun me siente;
caro m'hê custato, stù juorne 'e libbertà;
almeno t'aggio salutato,
pe' ttè è scaduto 'o tiempo, e i' torno a fingere 'e campà.

TRADUZIONE
UN GIORNO DI LIBERTÀ
Caro mi è costato, questo giorno di libertà,
da un momento all'altro...
mi son dovuto preparare,
Mentre venivo qua,
dalla finestra stretta del blindato...
ho guardato il mare di Napoli,
pensavo a te, papà;
piangendo mille cavalloni di lacrime.
Meno di mezz'ora fa mi hanno avvisato,
che il tempo ti ha dato
una scadenza da rispettare.
Salendo i gradini di quest'anima sola...
i desideri di bambino bussavano al cuore.
Perdonami papà, se mi presento ammanettato,
anch'io mi vergogno,
questo è il prezzo che si paga
quando sei un pregiudicato.
Sono una sconfitta per questa famiglia,
per fino i miei fratelli mi hanno evitato;
nemmeno una pacca sulla spalla,
non sia mai... io sono il figlio carcerato.
Vorrei accarezzarti, mannaggia le manette;
nemmeno questo mi è concesso,
riposa il cuore e il fiato,
sei stanco, non riesci a dire una parola.
Lo so, non preoccuparti,
se con rimorso stai pensando...
che son passati quarant'anni,
e non sei venuto mai a trovarmi.
Se leggi sulla mura del mio cuore...
ci trovi scritto, per te quello che sento,
e se chiudi gli occhi per un momento...
con le mani potrai toccare il mio sentimento.
Ma io parlo e tu non senti,
caro mi è costato questo giorno di libertà,
almeno son riuscito a salutarti
per te è scaduto il tempo, ed io torno alla mia prigionìa.


MENZIONI D’ONORE
FOCU SENZA FIAMMA – FUOCO SENZA FIAMMA – PAOLO   LANDRELLI   
FOCU SENZA FIAMMA
Senza rumuri arriva ‘ccitta, ‘ccitta,
com’ ‘a notti, ‘rrobandu li culuri,
glià ‘ssupa, u celu pari ca ti ‘mpitta
e ‘i ruvettari cumbogghjann’i χjùri.
I d’ogni malatia esti la mamma
l’atti li vidi e d’iglia mai cumpari
esti nu focu chi no’ n’avi fiamma
com’ ‘e carcari di li carbunari.
Ti senti tali e quali a ‘na vavusa
‘ca non camini cchjù ma sulu strisci,
pe’ ttia ogni jòrnat’è mugljurusa
e non ti senti né carni e né pisci.
E appena vai mu cacci’ ‘a testa i fora
‘na manu ti sdarrupa ‘nfund’ ‘o catu
com’ ‘a vavusa vorrissi ‘na scalora
ma ‘ntornu vidi sulu ‘nzulicatu.
Ti pari ca pe’ ttia ogni tifuna
esti  ‘nu  muru fatt’a d’armacera,
pur’ ‘a natura ti pari ‘mbrogghjuna,
ogni χjuχχjata ‘i ventu è ‘na bufera.
Chista di tutt’ ‘i guerri esti la peju
ca nott’e jòrnu non ti duna poju
no’ n’avi facci, t’arroba lu preju
e tu non palli manc’u fai piloju.
Ma comu tutt’ ‘i guerri ‘a poi vinciri,
si tu t’abbrazz’a li perzuni cari
e si d’ ‘i vrazza ‘i Diu ti fai stringiri.
Allura natta vota poi volari. 

FUOCO SENZA FIAMMA
Arriva in silenzio, senza fare rumore 
come la notte, rubando i colori,
lassù il cielo sembra che ti schiaccia
e le spine coprono i fiori.
Di ogni malattia è la mamma
le altre le vedi ma lei mai compare,
è un fuoco che non ha fiamma
come le carbonaie dei carbonari.
Ti senti proprio uguale ad una lumaca
perché non cammini ma vai strisciando
per te ogni giorno è nuvoloso
e non ti senti né carne né pesce.
E appena cerchi di tirare fuori il capo
una mano ti rigetta in fondo al secchio,
come lumaca vorresti della verdura
ma intorno vedi solo strade di pietra.
Ogni zolla per te oramai sembra
che sia un  muro fatto di cemento
anche la natura si appare bugiarda
ogni soffio di vento è una bufera.
Questa di tutte le guerre è la peggiore,
perché non ti da tregua né giorno né notte,
è senza volto, ti ruba le gioie,
e tu non parli neanche per lamentarti.
Ma come tutte le guerre, la puoi vincere
se ti abbracci alle persone care
e dalle braccia di Dio di fai stringere.
Allora un’altra volta puoi volare.
                                                                  
ARBEIT MACHT FREI – IL LAVORO RENDE LIBERI – IGNAZIO DE MICHELE
ARBEIT MACHT FREI
va cuntu
cuscì cùme me l'hàn dìita
duì vèegi peschuèi
tra n'addentàa, àn tòccu de figàssa e
na guàa de vìn giàncu scciumenìn:
èan in tanti
e, quande s'ennanàvan da u Segnù
joàvan cianìn cùme rìssi de anime
da i camìn
pèegi a lègna rensenìa
buìn sùlu da brujàa
cùme fòggi, d'èn calendàiu senza tèmpu
cùme i giùrni a ricurdàsse a strada
pè turnà
da Muè, dai fìggi, muggèe, amìji
e, manch'ìn tucchettìn de dùsse a dumènega
pe savèi ch'èan vìvi
ammuggièe
senza sciòu cùme anciùe sùttu sàa
in te vaguìn fermi in ta nèie
e fèua, elmetti ciaciaràvan divèrsu
frèidu
cùme a sperànsa de sentìi, tùrna
l'oudùu de màa e da macàia zeneise
fra miàge arrusigèe do tempu
bèi di bezagnìn e peschuèi allujentèe de scàggie
cùme quand'eàn zuenòtti
cùme quande
nu èan
fùme...

IL LAVORO RENDE LIBERI
ve la racconto
così come me l'han detta
due vecchi pescatori
tra un morso, ad un pezzo di focaccia
e un sorso di vino bianco frizzantino:
erano in tanti
e, quando se ne andavano dal Signore
volavano lentamente come volute di ectoplasmi
dai camini
simili a legna rinsecchita
buoni solo da bruciare
come fogli, di un calendario senza tempo
come i giorni per ricordarsi la strada
per tornare
dalla Mamma, dai figli, moglie, amici
e neanche un pezzetto di dolce la domenica
per sapere se erano vivi
ammucchiati
senza fiato come acciughe sotto sale
dentro vagoni fermi sulla neve
e fuori, elmetti chiaccheravano incomprensibile
freddo
come la speranza di tornare a sentire
l'odore del mare e della foschia genovese
fra muri erosi dal tempo
urla dei besagnini e pescivendoli rilucenti di scaglie
come quando erano giovanotti
come quando
non erano
fumo...


SEZIONE OPERE A TEMA
 PODIO
1.RESTA LA VERGOGNA – NADIA PASCUCCI    
RESTA LA VERGOGNA  

Genocidio alla luce del sole
Violenza  e crudeltà indicibili
tolgono  il respiro.
Canea di sciacalli   a  divorare tutto
E NOI immobili e indifferenti,
sordi e muti a guardare con occhi vuoti.
Basta, contare corpi senza vita,
vedere volti accecati dal terrore ,
occhi che invocano pietà,
bambini, angeli senza colpe,
ricoperti di polvere e sangue,
che impietriti
non riescono più neanche a piangere.
Dove sono le grandi potenze?
Il passato non è servito da esempio e da monito?
Usciamo da questa spirale di morte e dolore,
da questa infinita mancanza
di giustizia e di amore.
Sradichiamo la violenza
ricordiamoci che siamo  tutti FRATELLI.
Non prevalga la porta degli Inferi
Non si rinneghino i valori della libertà.
 la COSCIENZA sia  il nostro presente
Non si gioca la eterna lotta di potere sui cadaveri.
E di fronte ad orrori e atrocità senza limiti,
resta la VERGOGNA....

2.DOLCE VIENE DOLCE VA – ENZO BACCA
DOLCE VIENE DOLCE VA

Dolce viene dolce va.
Cos’è che m’appartiene?
Questo angolo di terra,
pezzo d’azzurro immenso
oppure nulla, il dubbio frena.
Bussa sempre, poi si nasconde
dietro l’angolo, come bimbo
che giocondo scampanella
corre via e se la ride, monella
quell’antica nostalgia d’inverno.
Dolce viene dolce va.
A volte il sogno si colora
attraversa il limbo come onda
poi riaffiora, edulcorato, sbiella,
arabesco taroccato, nero
scarabocchio sul quaderno.
Dolce viene dolce va.
Altalena fionda il mondo dondolando
nel ludico su e giù tra terra e cielo
solletica budella, cancella veli
il fumo che appanna occhi, sentimenti…
Mistero appeso alla lama, al filo.
Aquila che brama alta montagna,
solo, anch’io da eterna cima plano
e picchi e iperbole aleggio snello
all’aria sana e poi tinta e poi serena,
poi ancora grama.
Dolce viene dolce va, cantilena…
questo tempo menzognero, mezza prugna
un po’aspirina, forse menta piperita,
babà alla crema, sciapita minestrina,
Dom Perignon d’annata. Amara ciliegina sulla torta!
Dolce viene dolce va, dannata punta di grafite
che si spezza ad ogni scossa della vita
ad ogni parvula cancrena, ogni cellula morta.
Dolce viene dolce va, infinita
brezzosa voglia d’agognata giovinezza. Acquavite!
Pallida certezza (raggrumata) se ne sta sull’altra riva,
Caronte attende ansioso l’abbuffata. Io, la sveglia!

SILLOGE ADULTI A TEMA LIBERO
PREMIO ECCELLENZA
UNGHIE PER FERIRE – ELENA VARRIALE
Spesso con la penna
mi graffio la mano
e soltanto allora so che
ho vissuto ciò che ho scritto.
(Karl Kraus)
1
Ricamo il danno
sulla tela delle Moire
lì, dove vizi e virtù
si contendono scettri.

Destini incrociati
l’essere e l’apparire
sono figli della stessa
madre premurosa.

Scambiano intese
sospesi a mezz’aria
quasi a volersi toccare
e unirsi per sempre.

Siamo e non siamo
in questo grigio cielo
che ha strali per ferire
e luce per incantare.

2
Nella mela si cela il baco
nella pianta cova il fungo
tutti i respiri sono a tempo
nell’ombra trama il vizio.

Imperfetti dalla nascita
non siamo cloni migliori:
nell’iniquo indugia l’onesto
nel satollo dimora l’avido.

Fango e cielo convivono
sono il lato oscuro della
luna, l’eclissi che affligge
il computo del tempo.

Il cuore che si racconta
nel buio della stanza è
voce veritiera che smette
di lanciare sassi.

Ha unghie per ferire.


PODIO
1.  PROFUMO DI ZAGARE – GAETANO CATALANI    
SULLA VIA DELLE MANGROVIE 

Stavi seduta in un angolo del bar
con una tazza di caffè fra le mani
per placare il freddo del maestrale.
Mi raccontasti una storia, la tua vita,
mi parlasti di profumi e di mangrovie,
di corse sull’erba a rincorrere il tramonto
e poi supina ad ascoltar le rane nel fosso.
Anche stasera sei lì sul marciapiede
sotto il solito lampione malato
mentre  ripassi il rossetto e tiri su la gonna
a mostrare squarci di carne alla luna.
Mi abbozzi un cenno veloce con la mano
ed un sorriso velato di tristezza,
acqua chiara che scorre in uno stagno
dove gli angeli non osano volare.
Ti sfioreranno labbra con un muto ghigno
di vecchi con le pupille incandescenti
sopra un letto sfatto e una persiana chiusa
ad occultare l’orgasmo del silenzio.
Avevi un nome e non lo avesti più,
dolce crisalide che si finge farfalla,
prigioniera di una tratta infame
in un mondo che s’illude d’esser vivo.
Ascolti il canto di una libellula che muore
e un fremito d’angoscia t’attraversa,
c’è uno spicchio di luna, è quasi l’alba
e le luci dei lampioni ormai si spengono.
Hai imparato che si può vivere nel dolore
fra le braccia scomposte della notte
dove il frastuono del cuore si addolcisce
in un soffio di vento sulle mangrovie.


2.  EMOZIONI E PAROLE IN VERSI – ANTONIO BARRACATO   
LA FORZA DEL MARE

Onde impetuose
spinte dal vento
si infrangevano sugli scogli
fino a coprire
di schiuma bianca la battigia.
Il sole coccolato
da nuvole grigie
spruzzava i suoi raggi dorati
in un cielo burrascoso
Una salsedine graffiante
invadeva ogni cosa.
Gocce di una pioggia delicata
ricamavano a tratti
la mia fronte.
E mentre cercavo
con lo sguardo l’orizzonte,
il vento mi parlò
di gabbiani impazziti.
Il mare si espandeva
e si ritirava,
danzando
con il suo moto ondoso.
Ad un tratto
la sua voce impetuosa
invase la mia anima
e portò via il mio pensiero.


4.     EMOZIONI E POESIA – GIUSEPPE MILELLA
MALINCONIA

A volte ci sono giorni
in cui nel tuo animo   
penetra la malinconia
dapprima come un soffio lieve e sottile,
poi invade la tua mente e non ti abbandona.
Perdi la fiducia in tutto
e ti assale quel senso di nostalgia
verso un qualcosa che ormai è volato via
o forse che non hai avuto mai,
e ti scopri ad osservare il volo di una rondine in primavera
ti identifichi con essa, chissà verso quale fantasia
o con le nuvole grigie sospinte dal vento
in una fredda giornata autunnale
verso un viaggio infinito nel tempo.
Ma no, la tua mente non è rivolta verso un qualcosa di definito
in quello che osservi con gli occhi e lo sguardo,
è rivolta sempre a quel pensiero che, velatamente 
ha invaso il tuo animo, inconsapevolmente
senza sapere cosa sia.
E ti vengono in mente le esperienze e le delusioni,
frammenti di vita che non ritorneranno più
e pensi ai rimorsi e ai rimpianti.
Ripercorri in un attimo la tua vita, i tuoi ricordi,
quelle parole che non hai detto mai
quell’abbraccio trattenuto e quel bacio soffocato.
Rimani da solo, con te stesso
ed osservi nella mente mutevoli scene
tratteggiate da variabili figure
che inesorabilmente si dileguano
al primo rintocco con la realtà
che ti riporta con il pensiero
al tuo presente sulla terra,
senza però che quel senso di malinconia ti porti via.


ex aequo

3.IL SILENZIO DEL SUD – ANNAMARIA COLOMBA
IL SILENZIO DEL SUD (In notturna)

Non c’è un’anima,
né miagolii e né latrati,
neppure la luna
a rubare la scena
a questo immobilismo sacro e profano
di vicoli, balconi, muri, chiese, serrande
e gechi stagliati alla luce di muti lampioni…
Perfino i pensieri hanno tolto il disturbo
e zitta scende, benedetta, la frescura
a sopire la febbre del giorno,
mentre il respiro insieme ad essa tace.


MENZIONE D’ONORE
L’AMORE E LE STAGIONI – MARISA COSSU

SENZA TITOLO – DOMENICO RUGGIERO
LA GABBIA

La gabbia, posta in ombra,
è il mio sistema di periferia,
con tanti buchi vuoti
dove potermi accoccolare
sul potere della conoscenza.

Forse il fuoco fa male,
ma il bruciore della pelle
è segmentato
dal tatuaggio del tempo.

Ed io volo lontano dall’ombra,
al di là delle sbarre,
per eludere il guardiano
della miscredenza.

CATEGORIA GIOVANI A TEMA LIBERO
 PODIO
1.        DJ – LORIS AVELLA
DJ
Dj spegni la console,
la pista è piena di anime
ma io ho un vuoto nello stomaco
e la musica non riesce a colmarlo.
I mille tocchi degli altri
non riescono a spostarmi,
non invitarmi a ballare
non sono qui.
È un movimento il mio
sembra quasi un volo,
non tenermi per le mani
afferrami le caviglie
ho volato tanto
ed ho le ali stanche.
La canzone risuona dentro
Ti avvicini, ti strusci…
La cannuccia blu,
la tua saliva,
le mie labbra cacciatrici.
Dj spegni la console!
La pista, lo strobo
che malattia questa notte.
Un vuoto nello stomaco
riempito di ghiaccio
e Martini bianco.
Ho le ali stanche,
mi appoggio alle tue spalle
non hai ballato tutta la notte,
hai le chiavi e il mio respiro nella mano
ho poca voce per bestemmiarti,
le lenzuola son pulito
ed anche domani
avranno il tuo profumo.

2.        LEI DIMENTICA – RICCARDO TIBERI
LEI DIMENTICA                      
Incessante la lamentosa nenia
vano il continuo pianto
lontano l’insicuro sguardo
mancante ancor più la mente
indecifrabile il pensiero
tra la gente distante
incompresa
commiserata
perché lei dimentica
gli sbiaditi volti
che persistentemente
la obbligano a ricordare
ma lei non ricorda
bramosa di aiuto
vive di frammenti
mantenuta dalle nostre vitali cure.
Quando la roca e fievole voce
pronuncia fulminea il nostro nome
gioiamo
ma una lacrima cade repentina
graffiante sul volto.


3.        DOPO LA TEMPESTA – VINCENZO ROSSANO
DOPO LA TEMPESTA

La nave è salpata tardi,
le sue luci lampeggiano al largo,
la Luna colora il mare
di un bianco intenso come la neve.

Guardo i miei compagni,
abbiamo ancora speranza:
il mare è calmo e piatto,
possiamo proseguire veloci.

c’è qualcosa in lontananza...
un barcone in mezzo al mare,
faccio segno di avvicinarci
e grido “Stiamo arrivando, tenete duro!”

ma il mio volto all’improvviso
si bagna, sto lacrimando,
vorrei parlare, gridare
ma la voce stenta ad uscire.

Davanti un cimitero,
dietro la terra promessa,
la loro era una scommessa
ed ancora una volta
ha vinto il mare.

SEZIONE RACCONTO
PODIO
1.        NONNO OMERO – DOMENICA INZINNA   
NONNO OMERO

Forse è stato un caso, forse i ricordi rimangono davvero sospesi nell'aria e chi chiude gli occhi su questo percorso terreno, in realtà, non lo fa per sempre, continua a rimanerci accanto, a suggerire un ricordo, un gesto, un momento.
Questo pensavo seduta in penombra nel silenzio di quella serata estiva, quando una brezza inaspettata iniziò a soffiare, bussando contro la finestra semi aperta e aprendo il mio diario proprio sulle pagine che avevo dedicato a lui, mio nonno, l'oggetto dei miei pensieri in quel preciso istante.
Ne erano passati di anni, ma il suo viso era sempre davanti ai miei occhi, il suo sguardo si confondeva con il mio, e non era certo la prima volta che mi ritrovavo ad avere la sensazione di sentire il suo profumo.
Chissà quale fantastico viaggio starà compiendo adesso mio nonno, pensai prendendo tra le mani il diario e rileggendo quelle pagine, emozionata e tremante proprio come quando le avevo scritte.
Era tutto così surreale ma, allo stesso, tempo così tranquillo; l'aria fresca di una serata estiva, il silenzio, la penombra, e la sua presenza che riuscivo ad avvertire in maniera netta, quasi fosse accanto a me e insieme ricordassimo i vecchi tempi.
Non era molte pagine, era quasi un riassunto dei nostri momenti insieme, un veloce riepilogo dell'immenso affetto che ci univa e continua ad unirci, quasi le avessi scritte proprio per questo preciso momento.
Nessuno se ne va per sempre, è vero, così come nessuno rimane veramente solo, mio nonno in fondo è ancora qui, si è soltanto trasferito dalla sua stanza per abitare nel mio cuore, per essere la parte migliore di me, il ricordo più importante... e i ricordi vivono per sempre.
Mio nonno c’è ancora, adesso osserva la vita da un’altra prospettiva, una dimensione che non posso toccare, abbracciare, ma che sento profondamente nel mio cuore; lui c’è ancora, continua a vivere attraverso il mio pensiero, e anche adesso, di sicuro, sta sorridendo ascoltando questi miei pensieri ad alta voce.
Adesso ognuno di quelli che lo conoscevano, che gli volevano bene, ogni suo amico, tutti sono lui, e lo sono anche io, in un abbraccio che durerà per sempre, diventando ancora più forte ogni volta che penserò a lui.
Proprio per questo rileggo a voce alta le pagine del mio diario, sicura che in questo momento, in questa stanza, nella penombra di una fresca notte estiva, mio nonno è qui con me che ascolta, sorride e mi accarezza delicatamente i capelli.
Lui, il mio angelo, il mio eterno e sincero amico.
"I miei ricordi con nonno Omero iniziano da ....sempre. Quando avevo 4/5 anni e vivevamo in Germania mi portava con il pullman a Reutlingen, una piccola cittadina di provincia nel Land del Baden-Wurttemberg, un viaggio fatto di sorrisi, scivolando tra le campagne di un marrone acceso e sul sedile al ritmo delle curve in una strada che non avrebbe mai potuto fare da solo visto che non aveva mai preso la patente per paura. Passeggiavamo lungo la via principale, i würstel e le patatine fritte erano nostre compagne, il centro commerciale un punto fisso da visitare, dove mio nonno trovava sempre qualcosa da comperarmi.
Poi i nostri viaggi in treno, quando per le vacanze estive di ritornava in Italia, insieme ai ricordi di quando ci siamo trasferiti in Italia ed io sono andata a vivere con i nonni. Ero sempre il centro dei suoi pensieri e delle sue azioni, non rientrava mai a casa senza portarmi qualcosa, magari delle caramelle, ma comunque mai a mani vuote. Se la notte c’era il temporale, cosa di cui avevo molta paura, mi veniva a svegliare e mi faceva andare a dormire nel lettone.
Il giorno del mio matrimonio,avrei voluto fosse lui ad accompagnarmi all’altare, perché era lui che mi aveva cresciuta, amata, coccolata, lui che aveva asciugato le mie lacrime..era lui il mio papà, perché i figli non sono di chi li mette al mondo ma di chi li cresce.
Ho continuato a vivere con i nonni anche dopo sposata, e la nascita di mio figlio fu il più bel regalo che potessi fargli, il figlio maschio tanto desiderato era adesso realtà.
Dal giorno in cui le sue condizioni di sono aggravate, era l’8 aprile, e fino a quando mi ha lasciata, il 15 aprile, sono stata sempre vicino a lui, baciandolo, accarezzandolo; ho goduto fino in fondo quei suoi ultimi momenti durante i quali ci è stato possibile rimanere ancora insieme. Sono passati 15 anni, ma la sua mancanza è sempre presente, non è vero che il dolore si attenua, ci si abitua alla non presenza delle persone amate solo per non soffrire troppo.
L’ultimo momento, quello in cui capii che non lo avrei mai più rivisto, quando chiusero la bara, feci un’esclamazione rotta dal pianto:”NESSUNO MI DIRÀ PIÙ SEI IL MIO SOLE”.

Richiudo il diario, mi guardo intorno, una lacrima scende piano lungo le guance...nonno, se ci fossi tu qui, adesso, ad asciugarmela, che felicità!
Le cose belle vanno via sempre troppo presto, fai appena in tempo ad amarle, a renderti conto della loro grande importanza, e poi, d'un tratto, il cielo sereno si carica di grigie nubi, la tempesta si avvicina inesorabile preceduta da lugubri tuoni, e la morte, la nostra eterna compagna, passa veloce e tinge di nero quello splendido quadro che era fino a poco prima la tua vita.
Un soffio, ecco cos'è la vita, un soffio di vento, a volte caldo, a volte freddo e pungente, ma che in ogni caso devi sempre apprezzare fino in fondo, che può farti bruciare di gioia e d'affetto oppure gelarti il sangue dentro le vene.
Per questo io ci sono, per questo continuo ad andare avanti nonostante il dolore della tua perdita, perché si muore veramente soltanto quando l'ultimo ricordo vola via sulle ali di quel vento.
Io invece rimango, tengo duro, rimango al tuo fianco, continuo a scrivere di te, parlo al tuo posto, piango e rido al tuo posto, ti proteggo dal vento, perché senza di te non potrei e non saprei esistere.
Per questo, nonostante tutto continuo a cercarti, per questo nonostante tutto spero tu possa trovarmi, anche se lo so bene che non sentirò più il tuo abbraccio, il tuo calore, ma so anche che il cielo può contenere milioni di stelle, che tu adesso sei una di quelle, ed io di quella stella ho assoluto bisogno.
Così continuo a cercarla, tra le pagine di un diario, nei miei sogni, nei ricordi, in ogni attimo vissuto insieme a te, soprattutto nei tuoi piccoli gesti, nei tuoi silenzi, nei tuoi sguardi sempre attenti e vigili, in tutto ciò che eri, in tutto ciò che continui per sempre ad essere.
Tu mi hai insegnato a stare al mondo, a sapere quale è il mio posto, a sapere come comportarmi, ad essere fiera, viva, unica; tu eri il mio mondo e adesso tu, soltanto tu, sei tutto ciò che mi circonda.
Ogni albero che fiero si alza nella campagna è mio nonno, fiero e forte come tronco, che ti ripara, che ti protegge; ogni goccia di rugiada è mio nonno, un bene inaspettato che ti disseta nel momento del bisogno, un bene sul quale sempre e comunque puoi contare.
Ogni cosa mi parla di te e con ogni cosa amo parlare, perché non c'è luogo nel quale tu non ci sei, non c'è sorriso nel quale non ci sia anche il tuo, non c'è dolore nel quale io non senta la tua mano sulla spalla a darmi ancora forza e coraggio.
Questa è la vita che, nonostante tutto, continua ad andare avanti, che si ricicla, che assume altre forme ma che rimane intatta nella sua sublime sostanza; il tempo mette a tacere i singhiozzi, li cura con l'illusione, con le bende della rassegnazione, ma il dolore rimane e si muove dentro, pronto a gridare ad ogni istante, quando l'assenza diventa un fardello così pesante che ti senti le spalle cadere a pezzi e le ossa frantumarsi.
Il dolore rimane ma con esso anche l'amore.
Nonno, adesso ti porto dentro di me, li sei al sicuro, puoi osservare i miei passi, ascoltare i miei sospiri, le piccole gioie, i dolori, i problemi; forse continuerò a scrivere di te, forse continuerò questo diario, o forse rimarrò in silenzio, ad occhi chiusi, cercando per la stanza il tuo profumo, lasciando che la brezza della sera mi passi tra i capelli e illudendomi che, come allora, sia la tua mano.

2.        L’ULTIMO ATTO – MASSIMILIANO BELLEZZA
L’ULTIMO ATTO

Ero disteso da non sapevo quanto tempo.
La stanza era buia e attorno vi era silenzio. Era così immoto l’ambiente che udivo il ticchettio della sveglia. L’unico suono.
No, non era assoluto questo vuoto circostante. La mia compagnia era quell’esile, cadenzato e ripetitivo tic tac.
Non sapevo da quanto tempo fossi lì. Non ricordavo nemmeno da quanto la porta in fondo alle scale non venisse spalancata per far entrare la luce naturale della striscia sottile d’asfalto cadente di quella periferia dimenticata.
Non ricordavo la gente, i volti. Il suono della voce. Nulla.
Ma conoscevo ormai i profili incrostati di quella camera in cui mi trovavo, la polvere stantia dell’ambiente che mi serrava come in un bozzolo. Oh, sì, li seguivo con lo sguardo senza vederli dietro l’oscurità divorante.
Il mio respiro era il mio dna, l’unica traccia che fossi ancora vivo.
Ma per quanto sarebbe andato avanti?
Non mangiavo, era sicuramente da un po’. Sentivo il pulsare del mio stomaco, però non osavo uscire. Varcare quella soglia, mi avrebbe artigliato la gola fino a soffocarmi. Guardai in quella direzione, nel buio profondo dove si trovava la porta chiusa a chiave. Vedevo solo nero informe. La porta era là, celata. C’era, come era vero che io respiravo ancora.
I frammenti di questa discesa da recluso tremolavano sotto lo sguardo della mente, come una strada arsa sotto il sole cocente.
Perché avevo chiuso me stesso tra queste mura?
Ero da sempre un ragazzo problematico. Vero. Mi sarebbe servita una terapia cerebrale per sfuggire ai turbamenti e al dolore improvviso che mi investiva il petto. E il cranio.
Qualcosa non aveva funzionato se mi trovavo ancorato a questo letto. Qualcosa non funzionava, ero un ingranaggio inceppato. Una vita sospesa. In attesa di cosa? Avevo paura a formulare il pensiero.
Giacevo su un letto sfatto. Le mie mani toccavano le lenzuola e sondavano la superficie del giaciglio seguite da uno sguardo cieco. Ero nudo, senza abiti, come un uomo senza più linfa.
Non sentivo freddo. Non sentivo nulla.
Trentacinque anni. Un lavoro come tanti, in un’azienda farmaceutica. Ma stipendio buono, sopra la media. Pagavano bene.
Già, un lavoro ben remunerato.
Ahimè, qualcosa si era rotto dentro. Prima, di quel lavoro, forse. Non sapevo rintracciare la scintilla di quella follia - diagnosticabile in qualche modo? Bah! - che aveva segnato le mie sinapsi. E mi aveva reso un ammasso gelatinoso di inconsistenza.
Avevo un tale buco nero tra i ricordi.
Cosa mi aveva ridotto così?
Una scoperta orribile… Non riuscivo a rammentare.
Ora, sentivo solo un forte pulsare alle tempie. Un martellare continuo. Era incessante. Dovevo costringermi a non ascoltarlo.
Ma era forte, persuasivo. Quasi ammaliante e sembrava chiamarmi.
Marco… Marco… Non vieni?
Dove devo venire? Chi sei?
La voce smise i parlare. Tutto tacque per far posto, di nuovo, al tic tac.
Anche il mio cuore mi parve perdesse un colpo. No, era ancora lì, pulsante. Forse lo sarebbe stato ancora per poco, aspettava un segnale. Quale?
Un tumore.
Il tumore che mi divorava dentro. Quel qualcosa che si era rotto.
Vidi con lucidità quella scintilla. Ora. Hai un tumore, Marco. Le parole di quell’epatologo galoppavano voraci in un ribadirsi convulso e martellante: Hai un tumore allo stadio terminale. Mi spiace… Hai un tumore…
Ecco, mi aveva dato due mesi di vita.
Adesso ricordavo. Tutto. E fu come lava che mi scuoiava le carni e faceva cenere del mio corpo. La mente si era come sopita di fronte al fatto tremendo, si era eclissata: dimentica della mia condizione umana.
Chiusi gli occhi il tempo di una lacrima, prima che il buio esplodesse per sempre, in eterno, e la morte mi portasse via.

3. LA STORIA DI GIOVANNA – MICHELE MELILLO  
LA STORIA DI GIOVANNA

Era la vigilia di un Natale di un dicembre molto freddo, la neve caduta in abbondanza aveva ricoperto il piccolo orto antistante la casa, rovinando i piccoli ortaggi che aveva piantato con amore e speranza di poter almeno mangiare qualcosa.
Il focolare era spento e la poca legna che aveva da ardere ormai finita, non aveva più luce, ne gas, né telefono. Non avendo potuto pagare le ultime bollette le avevano staccato tutto.
Cosi Giovanna, per ripararsi almeno un po' dal freddo si era messa nel suo piccolo lettino indossando due maglioni e una vestaglia di lana che aveva più buchi lei che una grattugia, per cena aveva solo poche mele e qualche mandarino che era riuscita a cogliere dai due unici alberi che aveva nell'orto prima che la neve rovinasse tutto, e cosi aspettava che giungesse la mezzanotte e arrivasse il Natale.
Non aveva nulla per essere felice, era vedova da tempo, il marito morì in un incidente stradale investito da un ubriaco anni prima, e la sua unica figlia si suicidò l'anno dopo perché violentata dal suo ragazzo e non riuscì a voler vivere ancora!
Da allora Giovanna viveva da sola in quella casa, e le uniche sue entrate era una pensione sociale di 120 euro, che di sociale aveva ben poco, e i pochi frutti e ortaggi che gli dava il suo piccolo orto che bastavano solo a farla pranzare e qualche volta cenare.
Aveva 60 anni Giovanna, ma ne dimostrava molti di più segnata dai dolori e dalle sofferenze cui la vita l'aveva sottoposta.
Non aveva quindi davvero proprio niente per poter essere felice, eppure aspettava quel Natale con la gioia di una bambina.
Qualche volta passavano degli assistenti sociali che cercavano di convincerla lasciare quella casa ed andare in una casa di riposo, e lei sorridendo diceva non posso riposarmi devo coltivare l'orto!
Ormai mancava solo poco più di un'ora a mezzanotte e sarebbe finalmente entrato il Natale.
Giovanna si alzò dal suo lettino che sarebbe forse più giusto definire brandina indossò due maglioni uno sopra l'altro un berrettino di lana e i guanti bucati che erano gli unici che aveva ed uscì fuori nel suo orticello ricoperto di neve, si sfilò le pantofole e calzò i grandi stivali che erano li sull'uscio e si incamminò verso il grande pino che dominava il suo orto, salì sulla grande scala che aveva poggiato vicino il pino da tempo e con i suoi carboncini colorati iniziò a disegnare sulla neve poggiata sul pino varie sfere di ogni colore che sembravano proprio quelle palline con cui si addobbano gli alberi di Natale.
Poi scese dalla scala ed ammirava il suo albero di Natale e pensò è davvero bello!
Poi si mise a lavorare la neve e fece due bellissimi pupazzi di neve uno grande ed uno piccolino, a quello grande mise in testa un cappello e gli disegnò occhi e baffi, mentre sulla testa di quello piccolo mise una parrucca bionda e gli disegnò dei magnifici occhi verdi, quei pupazzi rappresentavano suo marito e sua figlia!
Si mise in mezzo ai due pupazzi abbracciandoli entrambi ormai mancavano pochi minuti a mezzanotte, stappò la piccola bottiglia di spumante che aveva portato con se e ne verso un po' sulla bocca dei due pupazzi poi ne bevve un po' e disse buon natale amori miei , di nuovo insieme famiglia mia e niente e nessuno potrà separarci mai, e rimase li cosi lasciandosi ricoprire dalla neve che cominciava a cadere sempre più intensa, rimanendo abbracciata ai due pupazzi di neve, era lì e suo marito e sua figlia erano con lei!
La mattina dopo, il Sindaco del paese con tutta la giunta passò per la casa di Giovanna a cui portava panettone e dolcetti, come faceva con tutti gli abitanti del paese che non potevano permettersi questo lusso, alcuni dicevano lo facesse per amore del prossimo, altri per sola nuda e cruda pubblicità a se stesso, bussò alla porta ma Giovanna non apriva, iniziò a chiamarla ma non ebbe alcuna risposta, fece per andarsene via e solo allora si accorse di quel Pino innevato che Giovanna con la sua arte ed il suo amore aveva fatto diventare un vero e proprio albero di Natale!
Si avvicinò al Pino insieme alle giunta e vide tre pupazzi di neve lì vicino, e che i due pupazzi a destra ed a sinistra sembravano abbracciare quello al centro, ma la neve che si stava lentamente sciogliendo cominciò a scoprire il viso di Giovanna, ed il Sindaco quando osservando un po’ meglio se ne rese conto esclamò Dio Mio è la Giovanna ed insieme alla giunta che lo accompagnava cominciò a togliere la neve dal corpo di Giovanna ormai senza vita e vide che nelle mani stringeva una lettera, la prese e la lesse a voce alta:
“Quando leggerete questa lettera vorrà dire che non sono più fra di voi e mi sono finalmente ricongiunta con la mia famiglia, mio marito e mia figlia, e con questa lettera voglio esprimere le mie delusioni, fare una confessione ed esprimere il mio ultimo desiderio!
La delusione per non aver visto giustizia per mio marito investito da un pirata della strada peraltro ubriaco che non è stato condannato a nulla perché qualcuno sentenziò che al momento dell’accaduto era incapace di intendere e di volere, allora il colpevole era mio marito che aveva deciso di farsi investire da lui?
La delusione per mia figlia che non ha visto giustizia dopo essere stata violentata e che non ha resistito al peso e si è suicidata, perché il suo ragazzo che le aveva fatto questo era figlio di qualcuno che con il suo denaro lo ha salvato da ogni accusa, allora la colpevole era mia figlia che si era fatta violentare?
Nessuno dovrebbe farsi giustizia da solo ma tutti dovremmo avere giustizia, purtroppo io sono stata costretta a farmela da sola e questa è la mia confessione, in questo orto sotto la grande quercia se scavate troverete due corpi, sono del pirata della strada che uccise mio marito e del ragazzo di mia figlia che violentandola la spinse al suicidio, e sono stata io a toglierli dal Mondo e per questo neanche io merito di vivere perché nessuno ed in nessuno caso dovrebbe farsi giustizia da solo, ma il perdono per ciò che ho commesso lo chiedo solo a Dio ed a nessun’altro!
Ed ora il mio ultimo desiderio è semplicemente questo, voglio essere seppellita sotto questo Pino che piantarono insieme mio marito e mia figlia, solo così potrò ricongiungermi a loro!
Ed a voi che state leggendo questa lettera e a tutti quelli che rimangono qui dico solo queste ultime parole. CERCATE DI RENDERE MENO VUOTA LA VOSTRA ESISTENZA”!
Giovanna fu seppellita li così come aveva chiesta e da allora quel luogo fu chiamato LA CASA DELL’AMORE E DELL’ODIO, e comunque nessuno volle più abitarci!





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