venerdì 30 settembre 2016

Romanzi di Marco Peluso‎



Per chi ama il genere alla Bukowski, Carver o Palahniuk, ecco nove romanzi, una raccolta di racconti e un'antologia di Marco Peluso. 
 

VIOLA COME UN LIVIDO
Viola continuava a guardare davanti a sé. Come ipnotizzata.
Come rapita da un qualcosa capace di devastarle l’anima.
Non le chiesi di cosa si trattasse. Era fin troppo chiaro. L’inverno
stava venendo per spodestare l’estate. Le grigie nubi avrebbero
portato via i raggi del sole, e chissà, forse le lacrime di Viola avrebbero fatto sparire quel suo dolce sorriso da bambina.
L’estate era finita!
Ma forse non era ancora tempo di morire. Sì, tra l’estate e l’inverno vi è sempre l’autunno, che forse è la peggiore delle stagioni. Un’illusione tra la vita e la morte. Quell’ultimo respiro di vita a cui si aggrappa un moribondo prima di lasciare il mondo.
Inutile speranza che alimentava solo le illusioni.
Mi ci aggrappai!
La volevo ancora. Volevo lei, senza sapere il perché.
Diedi un ultimo tiro alla sigaretta e la gettai per terra, lasciandola
lì sulla sabbia a consumarsi lentamente, forse come ogni sogno al mondo.
Ancora un sorso alla bottiglia. Il sapore del malto, la schiuma della birra.
Forse era il mio modo di piangere, e quel silenzio era il suo. Ma appena posai la bottiglia conficcandola nella sabbia, l’abbracciai, ed ecco il sole tornò sul suo dolce viso.
Era l’autunno! L’ultimo barlume di un cielo sereno che si aggrappava a se stesso per non cedere il passo al gelo.
Viola si aggrappava a me, forse io a lei.
Entrambi volevamo ancora del tempo. Entrambi volevamo ancora sognare. Sognare, di essere noi soli lì al mondo. Noi, lontani da tutto, su quelle sdraio, abbracciati a baciarci e magari pronti a scopare di nuovo.
Le nuvole presero a diradarsi lentamente. Viola alzò lo sguardo e sorrise, tenendo il mio volto tra le sue piccole mani.
Mi fissò, mi fissò attentamente.
Cosa stava cercando? Cosa vedeva nei miei occhi? E cosa, cosa si stava mai chiedendo?
Presto sarebbe tutto finito, ecco quanto! Sapeva che io sarei andato via e lei restata lì. Sapeva che quel momento di grazia non sarebbe mai più tornato.
Ma lo aveva previsto?
No!
Né io né lei credevamo che una semplice scopata ci avrebbe portato a tanto. E invece stavamo lì, fissandoci, consapevoli di un addio sempre più prossimo, guardandoci come a voler scolpire in noi il volto dell’altro, nell’illusione che il ricordo di noi e dei nostri giorni avrebbe lenito la mancanza.
Chissà, magari eravamo solo ingenui.
Sì, succede spesso quando due idioti sognatori finiscono a letto.

FOTTITI
Tutto era normale. Tutto era come sempre.
Lei si girò verso di me. Diede un ultimo sorso alla sua birra, gettandola poi per terra.
La bottiglia rotolò fino al bordo di un marciapiede. Un’auto caricò una puttana. Un tunisino diede un cazzotto a un pakistano, e una sirena della polizia cominciò a suonare chissà dove.
Lei mi fissò con i suoi grossi occhi verdi.
Il sorriso era tornato. Ma il sorriso ora era diverso. Quel sorriso era come quello concesso a ogni suo cliente.
Quel sorriso era freddo!
«Ti odio» mi disse, restando immobile davanti a me. Fredda, gelida, lì davanti a me.
Io non dissi niente. Non ci stava niente da dire. No, lei aveva detto tutto! Lei aveva svelato tutto.
Ti odio!
Ti odio! Ecco la risposta. Il mistero della vita. Il mistero di ogni amore. Il primo pensiero nella mente. Il primo pensiero mai confessato. Il primo pensiero nato nel guardare un altro essere umano.
E la verità era lì, proprio davanti a me. La verità era nel suo sguardo gelido che mi fissava. La verità era in quel suo sguardo gelido che mi penetrava.
Ti odio, ti odio, ti odio.
Eravamo nudi. Entrambi eravamo stanchi. Entrambi odiavamo l’altro. Entrambi eravamo colpevoli dello stesso peccato. Entrambi vittime dello stesso peccato.
Sì, ti odio! Quella la prima parola detta da Dio. Quello il primo pensiero di Gesù Cristo. Quello il sangue che pulsava nelle vene del mondo.
Io la guardai ancora. Distrutto, dilaniato, stanco.
«Hai ragione, anch’io ti odio» le dissi. E stavolta fu lei a non rispondere.
No, non disse niente.
Entrambi avevamo svelato il più Sacro dei misteri. Entrambi avevamo capito di amarci, e che dunque presto o tardi ci saremmo odiati.
Stavamo solo anticipando i tempi.
Ti odio!
Solo un bisogno di non essere soli. Solo piacere della pelle, di qualche emozione. Poi infine la noia nel sentirsi anche solo al telefono. La nausea nel guardarsi. La voglia di sbranarsi a vicenda.
Ecco, eravamo già sposati. Eravamo già una famiglia perfetta. Io e lei per sempre insieme.
Uniti dall’amore. Uniti dall’odio.
E che alternative avevamo?
Lasciarci! Lasciarci subito. Dirci addio e prepararci a riversare su qualche altra persona tutto l’odio che ci portavamo dentro.

LASCIAMI ENTRARE
Poi esalò un respiro. Un respiro profondo.
Altre lacrime caddero sul mio corpo, mentre le sue dita trapassavano le mie carni, fino a giungere a quelle poche frattaglie rimaste al posto del cuore.
«Lasciami entrare, mi dicesti, mentre cercavi di entrare in me. Mentre cercavi di entrare nel mio corpo» disse, restando poi un attimo in silenzio. «E io l’ho fatto! Ti ho lasciato entrare. Lentamente, ti ho lasciato entrare» riprese, alzando lo sguardo e fissandomi, mentre continuava a stringermi il petto e le lacrime bagnavano il suo viso. «E ti ho chiesto di farmi entrare, anche se so che non lo farai. Anche se so che non potrai mai essere mio, mentre io sarò sempre tua. La tua schiava! La tua bambola. Il tuo corpo senza anima. Qualcosa di mai esistito.»
Non ebbi il coraggio di risponderle. Non sapevo che dirle, e anche lei lo sapeva. Sapeva che non ci stava altro da dire oltre a quanto da lei già detto. Sapeva che i sogni non esistono. Che al mondo niente è giusto. Niente è come sognamo.
Restai semplicemente con lei, stretto a lei, abbracciandola e baciandola.
Dio, avrei voluto dirle che l’amavo. Chiederle scusa per tutto il male fatto.
Ma ogni cosa sarebbe stata una bugia!
Sì, sapevo di non amarla, e di non sentirmi davvero in colpa per il male che le avevo fatto. E sapevo che gliene avrei fatto ancora. Sapevo che avrei ancora usato quella mia bambolina. Che avrei ancora sbranato quello spettro invisibile. Quel corpo senz’anima.
Poi ecco che in quel silenzio, in quell’abbraccio, in quella menzogna in cui stavamo, la realtà ci colpì in piena faccia, tramortendoci, e facendo sgorgare sangue dai nostri occhi.
Il telefono iniziò a suonare dal mio giubbotto ficcato sul pavimento.
Io lo guardai. Lei guardò il vuoto.
«Non rispondi?» mi disse, sapendo già la risposta.
Io le diedi ancora una carezza, poi un piccolo bacio.
Mi alzai dal letto, lasciandola da sola lì, prendendo il telefono e avviandomi verso la cucina.
Era Anna!

VICOLI BUI
Io le presi la mano con forza, sorridendo, ma avendo dentro qualcosa simile a un barile di nera pece.
Che sciocca! Sì, era proprio una povera ingenua! Era cresciuta nel corpo, ma era rimasta la bambina di tanti anni prima. Non aveva capito che io ero cattivo come gli uomini che mi davano la caccia, che non ci stava né giusto né sbagliato al mondo. Solo uomini che sopravvivevano! Uomini che sopravvivevano divorando le carni di altri. E nessuna regina avrebbe mai fatto patti con i suoi schiavi. No, ogni regina avrebbe fatto scuoiare vivi i propri schiavi. E gli schiavi, se avessero potuto, avrebbero violentato a turno la loro regina, per poi diventare sovrani di altri schiavi.
E io ero come loro! Io ero uno schiavo braccato da tante regine. Uno schiavo pieno di rabbia. Uno schiavo che non avrebbe esitato a sbranare la propria regina, per poi costruire il proprio impero sui miliardi di cadaveri dei propri fratelli.
Ero cattivo! Ero il male in carne e ossa. Ero il peccato originale fatto carne. E lei avrebbe dovuto cacciarmi via. Avrebbe dovuto cancellare i suoi inutili sogni da mocciosa. Tirare fuori le palle e sbattermi fuori alla porta. Ma non lo fece!
Io non capivo. Io ero confuso. Io ero come lacerato da decine di mani che mi strappavo il cervello.
Non sapevo che fare! E così non feci niente, se non restar lì a sorriderle tenendole la mano.
Poi continuammo a parlare del nostro passato. Di quella volta che era riuscita a farmi piantare una margherita, o di quella in cui io mi offrii di essere punito al posto suo, dopo che lei aveva fregato una merendina dalla mensa.

AFFAMATA D’AMORE:
E via alle serate in discoteca. Bicchiere dopo bicchiere. Finendo in qualche cesso a farsi sbattere da uno sconosciuto. Facendosi scopare nel tentativo di distruggere la propria coscienza. Di non vedere più niente. Di non provare più niente. Urlando in maniera violenta “Esisto pure io!”.
Sì, un piccolo corpo martoriato e gettato in una discarica. Una principessa violentata. Una bambolina usata e poi bruciata.
No, non sarebbe più stata una bambina ferita. Non avrebbe provato più niente. Tutto le sarebbe scivolato addosso. Gli stessi uomini le sarebbero scivolati addosso. Al punto che, man mano, non sentì più neanche quei disgustosi ammassi di carne muoversi in lei. Non sentì più niente! Era fredda. Come morta. Solamente un corpo senza coscienza.
Ma l’amore, come incubo, continuò a tormentare il suo corpo bardato di metallo.
Per lei era come una droga. Per lei era cibo. Era affamata d’amore! Quell’amore mai avuto dalla sua formale famiglia. Quell’amore che lesinava ovunque, prostituendosi. Implorando a chiunque di vederla. Indossando mille maschera per essere amata.
L’illusione di essere compresa e amata la spingeva verso nuove spiagge. Verso folli viaggi in cerca di quel cuore ormai dimenticato. Ma il più delle volte non trovò niente se non nuovi morsi. Altro sangue sulla sua pelle. Altre illusioni. Altre unghie che cercavano di conficcarsi nelle sue carni.
E apri ancora le gambe. Fallo entrare. Sta zitta. Chiudi gli occhi, fingi che ti piace. Trattieni i conati di vomito. Stringi i pugni, sperando che finisca presto.
“È solamente come togliersi un dente. È solamente come togliersi un dente!”.
E quanti denti aveva tolto? Quanti denti le avevano strappati via.
Riusciva ancora a parlare?
Vedendola, stringendole la mano, mi sembrò quasi di percepire la sua voce, nel mezzo di una pozza di sangue in cui erano stati gettati i suoi denti.
Ecco, quella era Elisa. La spavalda. La pazza. Quella che rideva sempre. In realtà una ragazza dal cuore immenso e pieno di tagli. Non altro che un corpo divorato e poi vomitato. Lo specchio del mio stesso dolore. La bambina mai amata che rifletteva il mio essere un bambino mai amato.

THE WRITER
Poi decisi di chiudere quel dannato affare e aprii una pagina di word.
La fissai a lungo. Per secondi che mi sembrarono anni. Senza che mi venisse in mente niente. Nessuna storia. Non una sola parola.
Il vuoto assoluto, e le mie mani che tremavano sulla tastiera.
Otto romanzi scritti e quattro pubblicati, e non avevo più parole. Solamente il vuoto. E quei miei schifosi e fasulli sorrisi ancora scolpiti nella testa, come fossero un monito alla mia incapacità. Al mio essere uno zero. Un niente. Non altro che un pagliaccio.
Diedi un sorso forte alla bottiglia, come se volessi annegarli. Come se volessi annegare in quel veleno, dimenticando tutto, per poi rinascere in un’ubriaca e delirante emozione.
Ma rimasero lì. Innanzi a me. Vividi e penetranti. Rimbombanti nel mio cervello, mentre le mie dita continuavano a tremare sulla tastiera. Incapaci di scrivere. Incapaci di vivere. Incapaci di farmi respirare.
«Quante stronzate che hai saputo dire stasera. Bravo! Davvero bravo!» sentii rimbombare in quella stanza. Quella voce che spaccò in due le mura e il pavimento. Quella voce che spaccò in due il mio petto, facendo uscire da esso il mio cuore ancora pulsante; l’ultimo urlo verso una vita ormai perduta.
Digrignai i denti e strinsi forte la bottiglia, alzandola con forza contro le labbra e dando un forte sorso come se volessi fare arrivare fino al cuore quel veleno. Così da scomparire assieme a quella voce. Così da scomparire assieme a quella realtà.
Non morii!
No, stavo lì fermo, e quella risata rimbombava nella stanza e dentro di me. Devastandomi. Spezzando le mie ossa. Facendo ribollire il mio sangue, propri come le urlanti fiamme che squassarono le mura impegnate di pus.
Chinai il capo, stringendo tra le mani la testa e afferrando i capelli come se volessi strapparli. Strizzando gli occhi e digrignando ancora i denti. Urlando. Sferrando pugni contro tutto. Incurante del dolore che provava il mio corpo, sentendo un dolore ben più intenso nella mia anima.
«Che cazzo vuoi da me?» strillai. Quasi piangendo. Tremando e fissando il buio. Stringendo forte la testa china contro a quel foglio vuoto.
Lui rise ancora. La sua risata era una coltellata che mi apriva in due. Era la verità che non volevo vedere. Era il riflesso del mio volto inciso in uno specchio. Era la mia sconfitta, il mio dolore, il mio essere un niente.
Aprii gli occhi e mandai giù altro vino. Velocemente. Stringendo forte la bottiglia come se volessi spaccarla, proprio come sentivo spaccata la mia vita.
«Ma non sto scherzando!» rimbombò ancora quella voce, facendo tremare il pavimento sotto ai miei piedi e scuotendo il mio esanime corpo. “Sono sincero. Sei stato fantastico! Dio, non credevo che tu potessi essere così bravo. Davvero! E invece hai dato loro quello che volevano. Finalmente hai capito, testa di cazzo.»
«Fa silenzio!» urlai, alzandomi di colpo dalla sedia e additando il vuoto. Agitato, tremulo, sentendo il cuore implodere nel mio petto. «Tu non esisti! Tu non ci sei. Non sei un cazzo di niente!»
Quella risata mi avvolse ancora. Io girai attorno a me. Cercando di vederlo. Cercando di mettere fine a quell’incubo. Cercando di colpire tutto, ma senza riuscire a colpire me stesso.
«Tu non sai un cazzo di me!» strillai ancora, scagliato contro a un muro dalla sua poderosa risata. «Io sono uno scrittore! Non sono un patetico pagliaccio. Sono uno scrittore!»
«Scrittore un paio di palle!» urlò più forte, quasi sbattendomi al tappeto con quel suo urlo. Facendo tremare l’intera stanza, e crollare il soffitto su di me. «Alla gente non importa niente degli scrittori. Vogliono solamente sognare! Vogliono eroi in cui rispecchiarsi. Alla gente non importa un cazzo dei tuoi merdosi libri! Ficcatelo in quella tua testa di cazzo, amico. Perché prima lo farai, e prima ti toglierai da questo cesso in cui vivi, magari dando finalmente al pubblico ciò che cercano, invece delle tue schifose e cervellotiche pallose cazzate.»
«Sta zitto!» urlai, lanciando la bottiglia contro al mio armadio. Vedendola fracassarsi contro di esso. Vedendo frammenti di vetro volare ovunque, e vino colare sul pavimento, mentre la sua risata cominciò a svanire in quella stanza.

SENSO UNICO
Ma di notte, di notte tutto cambiava!
Sì, la brava gente spariva da quel posto. La si vedeva a stento passare nelle loro auto lucenti per andare chissà dove. Lì in quelle palle di metallo, al sicuro da tutta quella gente di merda. Dai tossici e dagli ubriaconi che se ne stavano sotto a qualche statua di un qualsiasi eroe a farsi o ubriacarsi. Dai negri grandi e grossi che se ne stavano fermi fuori a qualche palazzo, attendendo chi rapinare o violentare. Dai barboni che dormivano per strada su qualche cartone, o sotto al grosso tetto di ferro e plastica della stazione centrale.
Emarginati di ogni genere, proprio come le puttane minorenni e i trans che battevano ai bordi della strada.
Che dire, avevo visto quel posto tante vote, per molti anni, ma non lo avevo mai visto per davvero.
No, viverlo era ben diverso! Far parte di quel posto. Camminare a piedi per quelle strade mischiandosi a quella gente a cui non avrei mai dato neanche un centesimo era davvero diverso. Qualcosa che non si può descrivere. Qualcosa che si può solo vivere. E io lo stavo vivendo! E mi mancava il fiato per quanto tutto fosse reale. Incisivo. Soffocante.
Sentivo fin dentro alle narici il tanfo di sudore dei negri lì per strada a farsi o ubriacarsi. La puzza dell’alcool. Il fetido odore dei semi di girasole masticati dalle puttane Ucraine o Rumene, e il tanfo di merda dei barboni che dormivano per strada. Nonché il tanfo di Italiani, Cinesi, Polacchi, o qualsiasi altra razza lì in mezzo. Qualsiasi altra persona senza razza né nome. Solo miseri topi di fogna persi in quell’incubo al di là dei confini del mondo civile.
Sentivo dentro di me la puzza di quel posto. La solitudine di quel posto. La disperazione di quel posto.
Ne ero pervaso. La mia pelle ne era impregnata. Al punto che non riuscivo a ragionare. Non riuscivo neanche a fissare qualcosa nitidamente.
Solo ombre! Vedevo solo ombre. Ombre avvolte dal fumo di sigaretta e dalle luci delle auto che si mischiavano come un vortice con quelle dei palazzi. Quelle luci che dividevano il mondo degli sconfitti da quello dei vincenti. Il mondo di cui un tempo facevo parte, da quello di cui ora facevo parte.

UNA SCATOLA PER BAMBOLE (ZERO).
I mobili perfetti nella mia stanza perfetta accerchiavano come un vortice il mio corpo perfetto.
Ma ero davvero perfetta?
Sedici anni. Un metro e sessanta di altezza per meno di cinquanta chili.
Sì, ero perfetta. Davvero perfetta. Bellissima, lucente, radiosa e immacolata figlia di un facoltoso dottore.
Ero una bambolina riposta su di un comò, proprio come le tante bambole di porcellana che mia madre, misera contadina che aveva riposto i propri attrezzi da campo sposando il facoltoso medico del paese, mi obbligava a mantenere ancor lì.
Era un patto segreto. Lei non aveva preteso nulla, io non avevo acconsentito a nulla.
Era così e basta. Doveva esserlo. Era una regola in casa mia. In quella casa a Lodi dove tutto doveva essere perfetto, adeguato, socialmente accettato; proprio come me. Come me, una ragazzina perfetta in un corpo perfetto, che indossava abiti perfetti resi profumati da un ammorbidente perfetto.
Mio Dio, odiavo quell’odore di lavanda al gelsomino. Ma mia madre non lo sapeva. Forse nessuno sapeva niente di me in quella casa. Forse io, Lorenza, non esistevo neanche in quella casa.
Nulla parlava di me lì dentro. Il parato rosa non aveva il colore del mio umore, né tantomeno quella trapunta rosa e viola posta sul letto; ennesimo regalo non voluto di un qualsiasi Natale, passato in quella mia casa perfetta.
Non ero io riflessa allo specchio. Non erano miei i boccoli biondi che osservavo, e che avrei tanto voluto tagliare, magari solamente per non sentire mia madre dirmi ancora una volta “Lorenza, guarda come sono belli i tuoi capelli”, mentre mi pettinava con una spazzola regalata da sua madre, proprio come se fossi una di quelle bambole sul mio comodino. Una bambola perfetta in una casa perfetta. In un mondo perfetto.
E non mi appartenevano quei vestiti che indossavo. Vestiti sempre nuovi. Dai colori vivaci atti a farmi restare quella bambina che mai e poi mai sarebbe cresciuta. La figlia dello stimato dottore di una piccola cittadina, e di una donna così fortunata nell’averlo sposato.

UN CIELO DI CEMENTO
Lei sorrise, accarezzando le miei mani contro al suo viso, e chiudendo gli occhi come se stesse sognando chissà cosa.
Mi avvicinai a lei e la baciai. Un bacio lungo e intenso. Le nostre labbra che si muovevano freneticamente. Le nostre lingue che si sfioravano. Le nostre mani sui nostri corpi.
La gente era sparita. Il mondo era sparito. Ma il dolore restava ancora!
Sì, lo percepivo nei suoi baci. Mi stava urlando “Non lasciarmi sola!”, e io forse le stavo urlando “Amami!”.
Già, eravamo solo dolore, ecco cosa. Due vite ferite che si erano incontrate, unendo il loro sangue e le loro lacrime.
Il nostro amore non era altro che un grido. Stavamo urlando! Stavamo urlando al mondo il diritto di essere felici. E forse inconsciamente ci stavamo divorando a vicenda in cerca di quella speranza capace di dirci che la vita non fosse solo uno schifo, e che noi fossimo degni di amore. Ancora capaci di essere amati.
Ma nessuno di noi svelò quel mistero. I nostri baci erano il tempio in cui si celava il corpo di Cristo. La nudità celata nell’oro. La passione e le lacrime nascoste da una fasulla risurrezione.
E stavamo davvero risorgendo? Quell’amore avrebbe guarito le nostre ferite?

LA MASCHERA
Qual è il prezzo di un amore? Quanto costano i ricordi?
Trenta euro! Sì, ecco quanto. Ecco quanto il mondo valuta il tuo amore, i tuoi ricordi, le tue illusioni.
Ero infatti uscito da meno di un’ora da uno di quei negozi di “Compro oro”. La vera immagine del mondo.
Entri lì, da solo, disperato, con in tasca non altro che i tuoi ricordi. Entri, e ti trovi davanti uno sconosciuto. Uno sconosciuto che ti fissa da dietro un vetro, sapendo già perché stai lì.
E anche tu lo sai. E sai di non aver scelta, o almeno se vuoi sopravvivere qualche altro giorno.
Dunque lo fai! Dai a quello sconosciuto i tuoi ricordi. Lui li fissa senza cura. Li pesa, li valuta, e poi ti dà dello squallido denaro in cambio di essi.
Trenta euro! Ecco quanto valgono i tuoi ricordi. Ecco quanto vale il ricordo di un amore. E tu vorresti piangere, vorresti urlare, vorresti morire. Vorresti rinunciare a quei soldi, solamente per aver con te ancora quei ricordi; brutti o belli che siano, ma qualcosa di prezioso. Qualcosa di vero. Qualcosa in cui hai bisogno di credere, per non sentirti vuoto, inutile, morto.
Eppure hai bisogno di quei soldi. Dunque non dici niente. Vai via, sentendo una lama che ti spacca in due.
Trenta denari! Lo stesso prezzo che ebbe Giuda per aver tradito Cristo. Il prezzo attribuito al suo amore per Cristo. Il prezzo conferito al mio amore per Mara.
Già, Mara. Era passato un mese da quando mi aveva mollato, e io come un povero idiota ancora la pensavo. Pensavo a un anno passato assieme a lei, a tutti i giuramenti che mi aveva fatto, le parole dolci da lei dette, e il modo in cui mi aveva piantato; da un giorno a un altro!
Sì, la notte prima aveva detto di amarmi, e il mattino dopo disse che voleva altro dalla vita.
Dannata troia! E io che ancora la pensavo. Ancora che stavo male per aver venduto quel dannato anello che le avevo regalato.
Voleva altro. Sì, come no. E uno capisce di voler altro improvvisamente? Da un giorno a un altro?
Cazzate! Quella stronza aveva di certo conosciuto un altro. Ecco la verità. Qualcosa di reale come il mio essere ridicolo nel pensarla ancora.
Sì, trenta euro. E probabilmente per Mara il nostro amore doveva valere anche meno.
Poco male. Almeno avevo in tasca un po’ di soldi. Non molti, ma dato che non avevo un soldo, e che avrei preso lo stipendio tra due giorni, quei trenta euro per me erano davvero tanti. Forse persino qualcosa di più grande dell’amore di Mara.
Quei soldi mi permisero di fare ciò che ogni bravo fallito fa quando viene mollato da una donna. Mi permisero di bere. Di ubriacarmi, donandomi la compagnia dalla bottiglia. Il solo modo che ha un fallito per scandire il tempo.
E lo stavo facendo eccome. Sì, era ormai più di un’ora che me ne stavo seduto al bancone di un bar nei pressi della stazione centrale di Napoli, bevendo il mio secondo boccale di birra.
Le luci attorno a me erano soffuse, e illuminavano in maniera Caravaggesca le mura e i tavolini di legno di quel bar, e i volti della gente in quel posto. Dei volti stanchi, silenziosi, rassegnati. Povera gente come me. Gente cattiva come me. Gente inutile come me. Gente che se ne stava seduta a fissare il bicchiere, senza avere nessuno con cui parlare, o avendo al massimo qualche sconosciuto che continuavano a chiamare amico. Qualche sconosciuto che chiamavano amico, proprio come lo stronzo affianco a me.

DIETRO LA PORTA. (CHE CAZZO CI FACCIO QUI?).
Quando arrivai all’hotel Jolly, aveva da poco finito di piovere. Che strano! Era Settembre, eppure un forte temporale aveva percosso per tutto il giorno le strade di Napoli. Sembrava che anche il cielo provasse le mie stesse sensazioni. Che quel cielo notturno plumbeo di pioggia riflettesse volutamente il mio dolore.
Ma era un’illusione. Sì, al cielo non fregava minimamente del mio dolore, e così al mondo intero. A tutta quella gente che se ne stava in giro, intenta solamente alle proprie cose, non gliene fotteva un cazzo di niente di me. Quella gente magari di ritorno dal lavoro. Forse ferma ai tavoli di qualche ristorante. Oppure al cinema. In giro per le piazze, parlando con amici. Forse uccidendo qualcuno. O ancora sull’uscio della porta di un pidocchioso albergo del centro, proprio come me. E come me in procinto di andare a trovare lei. La solita lei! Quella che ci sta sempre. Quella che ti fa star bene. Quella che ti fa star male. Quella che a volte ti uccide.
Ida, così si chiamava quella lei. E di certo mi stava già aspettando in camera. Sicuramente trepidante come me. Oppure, forse, fregandosene.
Al telefono mi aveva detto che dovevamo parlare. E quando una donna ti dice che deve parlarti, beh, è quasi sempre per dirti che è finita.
Ma poteva finire tra me e Ida?
Già, come poteva mai finire qualcosa di mai cominciato? Qualcosa di così instabile come il nostro rapporto.
Decisi di non chiedermelo, ed entrai in quel lercio albergo. Io, non altro che uno dei tanti uomini al mondo. Forse non altro che uno dei tanti uomini per Ida.
La hall era illuminata dalle luci giallastre emanate da alcuni neon. Luci cupe e malinconiche che si riversavano su di una vecchia tappezzeria rossa, sui mobili di legno ormai prossimi allo sfacelo, e su di un grosso bancone di legno decadente dietro cui stava seduto un vecchio decadente.
Io mi avvicinai a lui. Lui mi conosceva. Ciro mi conosceva. E di certo mi sentì arrivare, benché non alzò lo sguardo dal suo giornale.
Appena arrivai a pochi centimetri dal bancone, Ciro alzò di un po’ lo sguardo, fissandomi senza cura; proprio come faceva sempre. Forse come faceva con ogni altro cliente che andava a morire, in un modo o in un altro, in quel lurido albergo.
«La sua fidanzata è in camera che l’attende, signore» mi disse, tornando subito al suo giornale.
Io annuii e non dissi niente. Lasciai il mio amico alle sue letture e mi diressi verso una vecchia rampa di scale di finto marmo. Quella rampa che conoscevo sin troppo bene. Quelle scale che conoscevo anche meglio di quelle di casa mia.
Secondo piano, interno 22. Conoscevo a memoria quella stanza. La nostra stanza! E mentre salivo quelle scale, sentendo attorno a me urla in diverse lingue, pensai che era strano l’aver sentito quella parola.
Strano, eppure bello.
“Fidanzata!”.
Sì, così aveva detto il vecchio. La mia fidanzata!
E lo era?
Chi era Ida, e chi ero io?
Eravamo fidanzati?
Ci amavamo?
Inutili domande. Quanto inutili sarebbero state le risposte. Ma mentre avanzavo verso il numero 22; verso la stanza dove avrei trovato la mia fidanzata, cominciai a sentire in me il terrore e il peso di quelle risposte.
Restai parecchi minuti fermo davanti a quella porta. A fissare il vuoto. A fissare il numero ventidue disegnato su quella porta. Devastato da infiniti pensieri. Da pensieri veloci e impercettibili che si muovevano nella mia mente come fossero uno sciame di mosche. Infinite metastasi che si moltiplicavano velocemente, divorando il mio cervello, e ogni mio organo.
Era davvero la fine?
Mi trovavo lì per morire?

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