mercoledì 12 aprile 2017

Daniel Sefashi De-Poet



Seems the green vegetations I see are not decent
They've entered into a lot of sins
Why the palm on this very day?
I can't still get the answers
Who is ready?

I believed Adam and Eve might have a secret
They were once in the Eden
My eyes are even blind to see them
Where gone the southsayers?
Come and call them for me
Ask them why is the Palm
Not the Coconut tree
Tell them these two trees are of the same stand
Rev.Father you're the teller of the story
The southsayers are not ready
Go through the bible
Tell me what is in
I want to know
Hey you carriers of the Palm leaves
Stop singing with it
How best do you tell me about it
I want to know
For its full of beauty and attractions
I love the culture of this people
But I am a lay man
Tell me I want to know...!

DONNA SELVAGGIA di TERESA ESPOSITO - BOOKTRAILER


 Scoprirsi smarrita in un tempo non suo è stato particolarmente doloroso per Teresa! Ha lottato ogni giorno per liberarsi dal predatore che è dentro e fuori di lei. Commette errori, soffre, le ferisce l’anima; la vita l’ha sottoposta a dure prove: Il predatore è sempre in agguato. La cattura, lei scappa, poi la cattura ancora, sente il suo fiato sul collo…. Dopo un inizio un po’ così, Teresa si appresta a diventare una Donna Selvaggia. La sua vita è una matassa zeppa di nodi da snodare. Lei annoda e poi snoda la sua vita di mille vicissitudini quotidiane, fino ad arrivare alla consapevolezza del suo essere, che la guiderà verso la conoscenza assoluta della verità… Della sua verità. Ora Teresa è diventata uno Spirito Libero, una Donna Selvaggia oltre il suo tempo.

MELTING LOVE - Bam Dev Sharma




MELTING LOVE

When the elusive summer
appears
the cloudy masses
begin to elevate
and twilight birds
dart in the woods
in jocund push.

Wilful moths
sprawl and gambol
over tulip flowers
to suck kernel
and summer drizzles
begin to fall
like woeful tales
of the sky.
Dreamy eyes
see the coy hills
bleamished
in ecstatic joy
caressed by moist
vapors
and damp hearts
seem riding on horses
in distance
singing
summer love
pouring onto grass
as if sprinkling gems
cloyed in mixture
like melting love!
By
Bam Dev Sharma
April 12,2017
Kathmandu, Nepal

SO MANY A SHAMING,.. Seema Devi




SO MANY A SHAMING,..



Slut-shaming
Color-shaming
Sex-shaming
Fat-shaming
Food-shaming
Periods-shaming
Gender-shaming
Country-shaming
Bondage-shaming
Life-shaming
Death-shaming
Job-shaming
dress-shaming
Food-shaming
Habits-shaming
God-shaming.

So many a shaming!
And this
Dips me into shaming.
Seema Devi......12/4/17
my digital art

domenica 9 aprile 2017

Tre margherite - Misk Hamid

 

 

 

 

Tre margherite



Tre Margherite
Belle e ardite 
si offrono alla vista 
d'ogni fortunato passante
e ripetono: qual' amante?
meriterà la nostra conquista


Tre Margherite
Dal nulla fiorite
sull'amato prato
E quel che conta...
Per loro è ogni vita risorta
Impara o ingrato!

Tre Margherite...
dolci come la vite ...
Inebriati della primavera
d'ogni suo profumo e brezza
e d'ogni domani senza certezza
Tre margherite dall'aria fiera

Tyran Prizren Spahiu - GEORGE GORDON BYRON




GEORGE GORDON BYRON

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Walks in Beauty, lyrical art masterpiece,
harsh feather, heavily hits poets
time when Child was born Harrold,
admitted itself-critical beauty.

Tepelena* mansions, proud with the visit
diary in verses, followed with curiosity,
that cold winter morning
born the name Byron, the friend of Albanians.
Rhyme, strongly drunks even a time,
welcomed from Albania, flow the strophes,
dressed in traditional costume
proudly in hand holding hanger.
Darkness is, soul suffers for music
under the sounds of harp kneeled is to the Lady,
says… if any residual tear is still,
heartbroken hosts mistress before leaving.
The last poem at the age of thirty-seven,
requires silent tranquility, love,
fire still burns in his chest
wanting lust crown, by no means chain of flames.
Tepelena*- Albania
Tyran Prizren Spahiu
@all rights reserved..

Mauro Patricelli, compositore e pianista abruzzese, da Copenaghen a Napoli passando per Roma. L’intervista a cura di Franca Nocera






NAPOLI - Da amante delle sagre e di borghi, a settembre 2016 ero a Tornareccio (Chieti), la città del miele e del mosaico, e mi affacciavo nei vari stand degustando i pregiati mieli dei produttori locali, quando mi ritrovo a commentare con la signora Miralda ed il marito, anche loro in visita, dell’evento. Una parola tira l’altra, e vengo a conoscenza del figlio, Mauro Patricelli, un grande e noto compositore che vive in Danimarca. Inizia così uno scambio di informazioni per e-mail. Dopo 6 mesi l’ho incontrato a Napoli, nella perfetta cornice del Teatro San Carlo. Pertanto, quest’intervista ha il fine di promuovere attenzione per attirare ascoltatori in un territorio di ‘nicchia’ come quello dell’Abruzzo e Molise, e non solo. Ho voluto, inoltre, dare rilievo alla visione italiana dell’artista da un punto di vista politico/culturale. Seduti nell’Opera Café del Teatro, parto con la prima domanda fondamentale.



Chi è Mauro Patricelli?

Sono nato ad Ortona sulla costa e cresciuto a Tollo (Chieti), un paese di circa cinquemila abitanti. Gli studi musicali li ho iniziati abbastanza tardi in Abruzzo, inizialmente come pianista classico e contemporaneamente, dopo aver terminato il conservatorio a 19 anni, ho continuato gli studi di perfezionamento ad Imola nell’Accademia pianistica frequentando, al tempo stesso, l’università, combinando la musicologia con la storia orientale e soprattutto con l’etnomusicologia e l’antropologia musicale. Queste discipline, in particolar modo l’etnomusicologia, sono entrate nel mio background formativo influenzando profondamente il mio approccio alla musica e alla composizione. Da ragazzo ero soprattutto interessato alla musica classica e rock e non provavo alcun interesse per la musica popolare - musica di tradizione orale - che in Abruzzo, all’epoca, era rappresentata, principalmente, da cori folkloristici che proponevano una versione della musica popolare rielaborata in chiave semiecclesiastica. Spesso i direttori di cori appartenevano al mondo ecclesiastico. Il primo impatto autentico con la musica popolare abruzzese fu all’università di Bologna dove, studiando etnomusicologia, ebbi accesso a documenti e registrazioni effettuate in Abruzzo risalenti alla metà degli anni ‘50. Quel tipo di canti e di suoni mi erano del tutto ignoti. Quindi l’aspetto paradossale stava nel fatto che, nonostante le mie origini, fu proprio l’esperienza universitaria a farmi scoprire la musica tradizionale abruzzese e a restarne affascinato.

Quando, nel corso dei tuoi studi, hai compreso che la musica era la strada che avresti percorso?

La musica ha iniziato ad interessarmi presto e il primo strumento in mio possesso fu la chitarra. L’unico musicista di famiglia era mio nonno, che suonava l’organetto diatonico, il ddu’ bbotte (in dialetto abruzzese), e lo suonava solo in occasione delle feste con una certa insofferenza da parte della mia famiglia, in quanto ripeteva sempre gli stessi pezzi. A me invece impressionava la sua abilità digitale e la potenza dello strumento. A posteriori compresi che, in quelle occasioni, si manifestava una frattura culturale tra il mondo contadino di mio nonno in cui la musica aveva un valore rituale, per cui la ripetitività serviva a generare una sorta di ipnosi collettiva, e quello della musica ‘moderna’ dal valore di intrattenimento. Dopo un periodo adolescenziale di grande passione per la musica rock, che tuttora conservo, la musica classica divenne il mio interesse principale, seguita dal jazz e dalla musica contemporanea. Da qui ho iniziato a comporre subito, in maniera privata, e poi professionalmente più tardi, dopo circa dieci anni di attività come pianista interprete.

Compositore e pianista italiano, attualmente vivi a Copenaghen ed il tuo cuore è fortemente legato all’Italia, e in particolar modo all’Abruzzo. Perché questa scelta di andar via e di vedere nella Danimarca il centro di gravità per la tua musica?

Ci sono tanti motivi. Il primo spostamento per me importante, dal punto di vista culturale, fu lasciare l'Abruzzo e andare a vivere a Imola per studiare. A Imola c'è un'importante accademia pianistica che frequentai dopo il conservatorio e il liceo scientifico in Abruzzo. Il mio soggiorno a Imola, in cui combinavo gli studi di perfezionamento pianistico e quelli universitari presso la Facoltà di Lettere a Bologna, fu quasi un trauma culturale e che innescò un senso di non appartenenza. Non mi sentivo più del tutto abruzzese e allo stesso tempo non mi sentivo bolognese. A Imola iniziai a lavorare come insegnante di pianoforte per poi diventare direttore della scuola comunale di musica moderna (la Scuola di Musica Ca' Vaina) maturando così un certo senso di appartenenza alla comunità imolese. Allo stesso tempo il mio accento abruzzese mi denunciava come un outsider. La stessa situazione si è verificata quando mi sono trasferito a Copenaghen e questa sensazione di semi-appartenenza persiste tuttora. Come tanti artisti italiani che non si sentivano sufficientemente 'compresi' in Italia, avevo anch'io a lungo fantasticato sull'esistenza di un luogo più accogliente, forse più colto, forse più aperto verso nuove proposte artistiche e auspicabilmente più disposto ad investire su una musica di ricerca e non commerciale. Fu soprattutto questa visione, insieme ad altri motivi, ciò che mi spinse a trasferirmi.

Ci sono delle differenze profonde, in campo musicale, tra l'Italia quale nazione di cultura, e il nord Europa, di cui la Danimarca è uno degli esempi. La differenza più macroscopica per quanto riguarda il mio settore, è il ruolo delle istituzioni nell'investimento economico sulla cultura. In Danimarca ci sono più finanziamenti pubblici e privati per produrre cultura e questi finanziamenti sono elargiti sulla base di progetti scelti e secondo modalità meritocratiche. In Italia invece le risorse economiche, per lo meno nei settori che non hanno una lunga tradizione di supporto pubblico, spuntano solo quando il prodotto culturale è già stato realizzato e si presta ad una qualche logica commerciale, propagandistica, turistica o di intrattenimento. In Danimarca, nonostante siano presenti tutte le dinamiche commerciali e mediatiche che conosciamo in Italia, lo Stato interviene in campo culturale stanziando fondi per "generare" una cultura che non esisterebbe senza la disponibilità degli stessi. Un progetto, in Danimarca, se di qualità, poiché la competizione è alta, può ottenere un finanziamento e può dar vita ad un prodotto culturale che non necessariamente è scelto sulla base di logiche commerciali. In un certo senso le istituzioni controbilanciano le dinamiche del mercato cercando di dare voce anche a quelle forme d'arte che non si adattano alle logiche commerciali.

In Italia è quasi impossibile progettare a lungo termine poiché è difficile trovare risorse che coprano i costi e il tempo della progettazione. Questa situazione genera un problema strutturale poiché la progettualità si impoverisce, vive col fiato corto. Un artista che ha buone idee deve metterle in pratica nell'immediato e cercare di concretizzarle, non può pensare a lungo termine e sviluppare un progetto negli anni perché questo non gli è riconosciuto, per cui si genera un cambiamento del ruolo dell'artista rispetto alla società in cui vive. Idealmente un artista che progetta a lungo termine ha un ruolo interlocutorio con la comunità con cui si relaziona e propone ad essa delle visioni, delle alternative. D'altro canto un artista che non progetta, oppure lo fa in maniera rinunciataria e solo a breve termine, ripiega su un ruolo servile rispetto alla comunità, ne nutre il bisogno sul piano dell'intrattenimento, anche se di qualità. In fondo finisce per dare alla società ciò di cui la società ha bisogno al momento.

Nel corso della tua attività hai riscontrato gradimento del pubblico in relazione ai lavori offerti? Le Istituzioni ti hanno aiutato o sono rimaste indifferenti?

La grande differenza che ho esperito durante i miei lavori in Italia, rispetto a quelli in Danimarca, è stato nel rapporto con le Istituzioni non con il pubblico. Le Istituzioni italiane sono statiche, difficili da raggiungere, non c’è un rapporto diretto con l’artista. In Danimarca, invece, le istituzioni sono vicine e comunicano, quindi l’artista s’interfaccia ad esse, è sollecitato a proporre progetti che possono essere approvati e finanziati, insomma c’è un rapporto costante. A Imola, partecipavo a bandi comunali o regionali per il finanziamento di progetti per conto della scuola di musica che dirigevo, ma nel caso di finanziamenti approvati avevo spesso la percezione che fossero erogati su misura in base al peso politico del gruppo locale che rappresentavo (cioè la cooperativa che gestiva la scuola di musica) e non in base alla qualità del progetto. Questa situazione era decisamente poco stimolante! In Abruzzo si sono presentate un paio di occasioni: al Teatro Stabile d’Abruzzo all’Aquila e al Teatro Marrucino di Chieti. Entrambe non andate a buon fine per dinamiche politiche, dinamiche che in Danimarca non interferiscono con la produzione di cultura. Le persone delegate a valutare i progetti sono persone specializzate che non ricoprono ruoli politici. Hanno un mandato breve ma stabile, quindi eventuali ribaltamenti della scena politica non mettono a repentaglio la stabilità del sistema.

Il tuo lavoro si basa principalmente sulla reinterpretazione di musiche di tradizione orale ed hai realizzato diversi progetti su musiche abruzzesi, danesi e d’Europa. La tua musica è, quindi, colta, d’èlite.

Una buona parte dei miei progetti prende spunto dalla musica di tradizione orale, la cosiddetta musica contadina, attraverso le registrazioni depositate nei diversi Archivi di musica popolare. I miei primi progetti si basavano su un approccio puramente musicale, in cui trascrivevo e studiavo il materiale originale per poi reinterpretarlo attraverso un’orchestrazione delle melodie, a volte aggiungendo idee musicali estranee al materiale originale. Di progetto in progetto è in me emersa sempre più la necessità di comunicare all’ascoltatore anche il processo che si celava dietro il risultato musicale finito, cioè la fase di ricerca preliminare al mio lavoro creativo. Quando si ha a che fare con la musica di tradizione orale ci si confronta con un mondo culturale che tendenzialmente è sparito, ne restano solo delle tracce, raccolte e studiate dagli etnomusicologi. Possiamo dire che da questo punto di vista l’etnomusicologia sia quasi come l’archeologia ma nel caso dell’etnomusicologia abbiamo a che fare con ritrovamenti ‘immateriali’, poiché la musica di tradizione orale, in quanto tale, non è stata mai scritta ma tramandata esclusivamente di memoria in memoria. Tornando al mio approccio nel reinterpretare i canti che ascolto negli archivi di etnomusicologia, è per me importante far capire a chi ascolta la mia musica che il risultato finale del mio lavoro è, di fatto, una musica moderna, contemporanea, espressione individuale della mia urgenza artistica che non vuole minimamente confondersi con la tradizione orale contadina, che invece è qualcosa di antichissimo. Infatti nel mio lavoro non uso strumenti tradizionali della musica contadina bensì il pianoforte, il violino, le percussioni moderne ed altri strumenti appartenenti al mondo della musica classica. Questa esigenza di prendere una posizione distante e rispettosa rispetto al folklore che reinterpreto, in modo da evitare ogni rischio di falsificazione o camouflage, mi ha portato progressivamente a sviluppare una nuova forma di teatro musicale a metà fra il documentario e l’opera.

Hai reinterpretato un canto popolare abruzzese, La partenza della sposa, del 2002, che hai utilizzato in un progetto teatrale presentato a Copenaghen nel 2016. Cosa ti ha ispirato e con quale risultato?

C’è un intero repertorio di ‘partenze’ in Abruzzo riconducibili sia alla forma tipica di ‘partenza della sposa’ ma anche alla ‘partenza del pastore’ in occasione della transumanza. È evidente che in Abruzzo il tema della partenza è molto forte. La partenza della sposa è un canto di augurio, ma che a tratti assume il carattere di un lamento, di un canto di addio, che la madre della sposa canta alla figlia il giorno del matrimonio. La partenza della sposa ha un carattere ambivalente poiché alterna momenti di auspicio, in cui la madre invoca la fortuna sulla figlia augurandosi che la nuova famiglia sia amorevole e accogliente come la famiglia d’origine, a momenti di tristezza e nostalgia poiché si tratta comunque di un forma di abbandono. Nel tipo di comunità tradizionale in cui il canto si è sviluppato, il matrimonio era un taglio definitivo tra la figlia e la famiglia d’origine, quindi sostanzialmente la partenza della sposa è un canto d’addio. La versione originale di questo canto è stata registrata dall’etnomusicologo abruzzese Domenico Di Virgilio.

La tua musica ‘applicata’, se posso usare questo termine, è stata scritta per il teatro. Raccontaci di quest’esperienza e se puoi definirti un compositore poliedrico.

Quando parliamo di musica per il teatro, spesso pensiamo alla musica di scena, ma non è il mio caso. Il teatro è stato per me il luogo di arrivo attraverso un percorso in cui ho cercato di rimettere in discussione la forma del concerto. Non mi sembrava più sufficiente presentare all’ascoltatore il risultato finale delle mie reinterpretazioni di canti tradizionali. Sentivo la necessità di coinvolgere l’ascoltatore anche nel processo di ricerca e di rielaborazione del materiale. Il Teatro è diventato il contenitore ideale in cui sviluppare una drammaturgia che coinvolga anche il materiale documentario, le fonti, gli aneddoti che ruotano intorno alla registrazione di un determinato brano, il rapporto tra l’etnomusicologo e il cantante, quindi possiamo parlare, nel mio caso, di un teatro musicale documentario più che di musica per il teatro. Definirmi un compositore poliedrico? Dovrebbe dirlo qualcun altro!

Sei a Roma presso l’Accademia di Danimarca per lavorare alla tua nuova opera-documentario. Illuminaci!

Lo scopo di questo soggiorno a Roma è lo studio di alcune raccolte di musica popolare conservate presso l’Archivio di Etnomusicologia di Santa Cecilia, in particolare le raccolte di Alan Lomax e Diego Carpitella, due etnomusicologi quasi leggendari che hanno lavorato in Italia dalla metà degli anni ’50. Il risultato del mio lavoro sarà inizialmente un programma da concerto che presenterò con il mio ensemble in anteprima a giugno, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Copenaghen. Successivamente continuerò ad elaborare questo materiale che auspicabilmente dovrebbe diventare una nuova opera-documentario. Nel definire questa forma di teatro musicale mi riferisco all’opera non tanto per ciò che essa rappresenta oggi nell’immaginario collettivo, ma alla sua capacità di innalzare la storia raccontata su un piano mitico, anche se si tratta della storia di un uomo realmente esistito. Nello specifico le mie opere narrano le vicende degli etnomusicologi che attraversarono le campagne verso la metà del secolo scorso per dare voce a un popolo che altrimenti sarebbe rimasto silente nella storia della musica (la musica contadina essendo tramandata di memoria in memoria, senza l’uso della scrittura, non avrebbe lasciato tracce nella storia umana senza l’intervento e la documentazione da parte di questi etnomusicologi).

Come si può stimolare nell’ascoltatore la comprensione linguistica della tua musica?

Accettando l’assioma, pur discutibile, per cui la musica sia un linguaggio; un compositore propone una sua personalizzazione di questo linguaggio. Ci sono molti ingredienti che fanno parte della mia musica: certamente l’eredità della musica classica europea, le fonti etnomusicologiche delle regioni che ho studiato in relazione ai progetti, come appunto quello sulla musica abruzzese, danese, emiliana e non ultimo quella armena. Altro elemento importante è il minimalismo musicale, di provenienza statunitense. Nelle mie composizioni cerco di sintetizzare due mondi musicali, quello classico europeo (e americano) e quello popolare con l’uso di ostinati ritmici, di elementi ripetitivi che generano una dimensione a volte ipnotica ma anche ricca di contrasti quasi violenti. In questo modo cerco di portare l’ascoltatore verso uno stato percettivo diverso, quasi rituale. Ed è il risultato della mia reinterpretazione di canti tradizionali.

Quali tracce faresti ascoltare ai tuoi futuri estimatori?

Sicuramente La partenza della sposa e, a seguire, Nu giovane, Quadriglia che è un brano strumentale con un intervento più pesante, L’ultimo abbraccio, ispirato ad un canto tradizionale ma che presenta un testo d’autore (di Nicola D’Alessandro), tratti dal Cd ‘Scura Maje’ pubblicato da Menabò. Inoltre farei ascoltare/vedere il trailer della mia ultima opera ‘Dansejaeger’ (Il cacciatore di danze), presentata a giugno 2016 in cinque rappresentazioni al Betty Nansen Teatret, uno dei teatri più prestigiosi della Danimarca. Lo spettacolo racconta la vicenda dell’etnomusicologo danese Andreas Fridolin Weis Bentzon che alla fine degli anni ‘50 fu il primo a registrare e a documentare approfonditamente le launeddas sarde, uno strumento antichissimo allora in via di estinzione, riuscendo al tempo stesso a rivitalizzare questa tradizione. In questo spettacolo racconto sia l’aspetto storico/biografico di questo giovane etnomusicologo, morto nel 1971 all’età di trentacinque anni, sia racconto alcuni aspetti della musica tradizionale sarda.

Cosa vedi nel tuo futuro musicale?

Sono molto soddisfatto delle cose che stanno accadendo, quindi non penso molto al futuro. Sicuramente voglio continuare a sviluppare in maniera ancor più coraggiosa ed ambiziosa questo approccio poetico-documentaristico alle musiche che amo. Ho anche in programma di suonare di più perché, da quando sono in Danimarca, l’aver avuto successo come compositore ha ridotto un po’ il mio lavoro come interprete. Comporre resta il mio obiettivo principale ma il rapporto quasi fisico che si instaura con il pubblico nel momento della performance è un valore aggiunto alla mia attività e che mi alimenta. Ho intenzione, quindi, di dedicare più tempo a progetti in cui la mia presenza in scena come musicista sia maggiore. Un mio ulteriore obiettivo è sviluppare uno di questi progetti di teatro musicale documentario in Italia, ed in particolar modo in Abruzzo, regione che ha rappresentato per me il primo elemento d’ispirazione nel percorso di ricerca che poi ho sviluppato negli anni, lontano dall’Abruzzo, ma spesso riferendomi a questa prima fascinazione.

Grazie Mauro per l’intervista, per la tua musica colta, per la tua performance al pianoforte del San Carlo, per la vigorosa espressione della tua arte. Forte nelle reinterpretazioni e gentile nell’accurata ricerca. Buon sangue non mente! E grazie a Virginio Giorgioni, responsabile dell’Archivio Musicale del Teatro San Carlo che, a sorpresa, ci ha condotti nel cuore del Teatro. A presto con un posto in prima fila al Teatro San Carlo, al Teatro Stabile d’Abruzzo, al Teatro Marrucino.

Franca Nocera


Selezione discografica:
·         Works for Drums and Keyboards. 2014, Gateway Music, København. Denmark
·         Cité-peau. Works for Drums and Piano. 2012, Gateway Music, København. Denmark
·         Finisduo. Works for Alto Sax and Piano, II. 2011, Philology, Macerata, Italien
·         Rabazera. Musica arcaica e musica nuova. 2007, Ca’ Vaina, Imola. Italien
·         Piano Solo. 2004, Lugo. Italien
·         Tribù italiche. Abruzzo. 2003, EDT, Torino. Italien
·         Ninna nanne dal mondo. 2003, Efeso, Bologna. Italien
·         La Partenza della Sposa. 2002, Ecamlab, Pescara. Italien
·         Scura Maje. 2001, Menabò, Ortona. Italien
Opere musicali:
·         Dansejægeren (The Dance Hunter). Betty Nansen Tater, June 2016. Copenhagen, Denmark
·         Syng for fremtiden, Ingeborg! (Sing to the future, Ingeborg!) Københavns Musikteater, 2013. Copenhagen, Denmark
·         Qualcosa di’mbina, Italian Culture Institute, 2010. Denmark (concert version).

RAPPRESENTAZIONE Tra il sogno l'amore e il disincanto - Francesco Staglianò


8 aprile: Giornata Internazionale dei Rom e dei Sinti





La Giornata internazionale dei Rom – che si celebra domani 8 aprile –  ripropone ogni anno, anche  in Italia, uno sguardo di attenzione al popolo rom e sinto, una minoranza non ancora riconosciuta nel nostro Paese. Il mancato riconoscimento, oltre  a non aiutare la tutela di alcuni diritti fondamentali, accresce in questo popolo l’apolidia e sempre più, nelle nostre città, produce emarginazione e ghettizzazione (basti pensare ai 40.000 Rom che vivono ancora nei campi).
In occasione della Giornata internazionale, la Fondazione Migrantes ha pubblicato, nella collana esperienze e testimonianze, un volume di Susanna Placidi dal titolo ‘Una giornata particolare. L’incontro di Paolo VI con gli zingari a Pomezia’ (Tau Editrice). Il volume, che  è introdotto da Mons. Gian Carlo Perego, Direttore generale della Fondazione Migrantes, e con una prefazione dell’Arcivescovo di Bologna, S.E. Matteo Zuppi,  aiuta a rivivere, sulla scorta soprattutto di una documentazione inedita di un protagonista, don Bruno Nicolini, lo storico incontro  di Paolo VI con i Rom a  Pomezia, il 26 settembre 1965. Da quel giorno,  il mondo dei rom trovò un posto particolare nel cuore della Chiesa e nella vita pastorale, alla luce dell’appello – ripetuto con forza da papa Francesco il 26 ottobre 2015 incontrando 7.000 rom di tutto il mondo – : “E’ arrivato il tempo di sradicare pregiudizi secolari, preconcetti e reciproche diffidenze che spesso sono alla base della discriminazione, del razzismo, della xenofobia. Nessuno si deve sentire isolato, nessuno è autorizzato a calpestare la dignità e i diritti degli altri”.
La Giornata internazionale dei Rom e dei Sinti  richiama ogni anno la dignità umana di un popolo ancora troppo spesso calpestata”, ricorda Mons. Perego: “al tempo stesso la Giornata, nelle nostre comunità ecclesiali, diventa l’occasione per iniziative pastorali che costruiscano nuove relazioni, esperienze d’incontro con le piccole comunità rom e sinte presenti tra noi, così da considerarle un soggetto e una risorsa di vita cristiana”.